La qualità umana che prevaleva in Mario Luzi e che mi colpì sin dalla prima volta che lo vidi era la mitezza. Mite, esitante, gentile, così mi appariva ad ogni nostro incontro, sia che avvenisse a Parigi a un Salone del libro, sia a Firenze nel salotto di qualche comune amica, sia in qualche giuria di premio letterario. Una volta, su un treno affollatissimo, il controllore lo riconobbe, cosa molto rara, se si pensa che Montale raccontava come nessuna impiegata delle Poste avesse mai alzato la testa verso di lui udendo il suo nome. Ricordo che Luzi sorrise, ma senza nessun compiacimento, quasi con una certa mestizia.
Eppure quest’uomo dal volto affilato, curvo ed esilissimo nel trench avorio stretto da una cintura che amava portare, possedeva uno straordinario dono vitale, che la vecchiaia invece di attutire fece miracolosamente crescere di intensità. Aveva il fuoco della fede, nel cristianesimo, nella poesia. Amava le donne e ne era riamato. Tra quelle che gli furono vicine, ne ho conosciuto due, poetesse, intellettuali, donne dalla personalità forte, una forza da cui lui doveva essere attratto e non so come respinto. Ma Luzi era sposato con Elena Monaci, un’insegnante che aveva conosciuto da giovane e dalla quale aveva avuto il suo unico figlio; pur vivendo da anni in una casa diversa la propria vita, non aveva mai divorziato da lei. Arrivato alla soglia dei novant’anni, nella sua sorprendente vitalità poetica della vecchiaia, cui è pari soltanto quella di Ungaretti, come lui cristiano tormentato e appassionato, dedica al suo rapporto con la moglie una poesia di intensissima, straziante sincerità. Si intitola Infra-Parlata affabulatoria di un fedele all’infelicità e come scrive Stefano Verdino, ottimo curatore dell’intera opera luziana, è una «intima diatriba tra affetto e infelicità».
Il poeta ritorna a un momento lontano, nevralgico, dolorosissimo della propria esistenza, l’abbandono di quella che lui chiama «sposa», con termine biblico, da Cantico dei Cantici. L’occasione è una visita di rito alla donna ormai anche lei anziana e ammalata e il ritorno alla propria casa da solo. Nell’arco di questo tragitto fiorentino, un nodo doloroso lo stringe, più forte che altre volte, lo soffoca. Lo spinge a parlare tra sé e con se stesso. Ripensa a quando le loro due esistenze, la sua e quella della moglie, si affrontarono con «spavalderia crudele»: non è sempre crudele la spavalderia agli occhi della mitezza? A quando le loro due esistenze si riconobbero contrarie l’una all’altra e si sciolsero dal loro «groviglio dolcemente serpentino». Che cosa è la fine di un matrimonio per i due che si sono uniti in esso? Una forma feroce di autodistruzione, o una sfida, una frenesia oscura di ricominciare ciascuno per proprio conto?
Il poeta, con una riflessione tardiva, quasi autopunitiva, ribadisce che da parte sua vi fu ambiguità. Mentre dalla parte della moglie riconosce che vi fu sacrificio. C’è un elogio commovente di lei, «affettuosa marta» della sua famiglia d’origine e di quella nuova, Marta come la sorella di Lazzaro, buona, efficace, attiva. Ma a cui persino Gesù preferì Maria, l’altra sorella, affascinante per i suoi capelli e la sua bellezza. C’è il ricordo dei momenti felici del matrimonio, con il bambino, il figlio Gianni, «nel fiore della crescita».
Ma da questo ricordo dolce, Luzi cambia tono, e si rivolge ora, con un «tu» duro e accusatorio a se stesso. È lui che ha privato la moglie persino della propria dedizione, è lui che ha divagato nel mondo, preso in altre pene e in altri incanti, senza sapere, senza voler sapere più niente di lei. Pesa sul poeta un carico impalpabile di macerie, e il tempo gli appare una «insidiosa malattia». È l’ora del rimorso. Per avere offeso l’armonia del mondo, per aver manifestato cattiveria verso chi non la meritava. La pena del poeta è grande. Va allora verso un «ravvedimento», verso una «conversione»? Vorrebbe forse, ma sa che da parte sua non ci fu cattiva volontà, non ci fu rancore, soltanto un sottostare all’opera del tempo e della vita, alla loro «tortuosa serpentina di amore e dolore».
In un risentito tentativo di discolpa, il poeta dice a se stesso: sei stato nel mondo, nel vivo della vita. Ma qui subentra lo spirito cristiano da sempre attivo in Luzi, il ricordo di una affermazione di madre Teresa di Calcutta secondo cui per meritare il Cielo Cristo ci ha posto sotto esame riguardo la nostra carità pratica, attiva verso i deboli, i diseredati, i poveri. E la domanda allora scoppia con la violenza di un tuono: che cosa ha mai fatto lui, il poeta, per superare questo esame? Qualunque merito abbia mai acquisito, viene abolito dalla sua inoperosità, dal male che ha causato. Alla fine, riconosce che ciò di cui ha bisogno è il «perdono», concetto per eccellenza cristiano, e in una sofferta confessione declina i suoi peccati, di inerzia, di omissioni. Il suo cammino verso casa sta per finire. Appare un’alba «sull’ultimo crepuscolo», una «alba notturna», che è insieme morte e resurrezione, e che il poeta vorrebbe essere pronto e all’altezza di cogliere.
Ci sono poesie forse esteticamente più belle in questo ultimo, miracoloso libro che è Lasciami, non trattenermi (Garzanti, pagg. 154, euro 19), quelle che hanno come temi il tempo, l’essere, la luce coniugata in diverse forme, il tempo-luce, l’estate-luce, la luce-luce, quelle che celebrano il tremito di un fiume, il respiro di un albero, la materialità trasparente dell’estate, la concordia tra le creature nel miracolo del creato, la febbrilità della primavera, la sensazione che la propria storia umana non sia aliena dal mite fiato dell’intero universo. L’ultimo Luzi ha la elementarità felice e profondissima dei presocratici. Ma il testo doloroso dell’Infra-Parlata spicca per la forza delle sue domande esistenziali, per la sua verità penitenziale, per il suo stile colloquiale anche slabbrato qua e là, ma quanto potente e coinvolgente.
Nessuno poteva immaginare un Luzi così spietatamente e mitemente sincero sulla sua vita privata. Si ripete sempre che la poesia è morta. Ma il lavoro di Luzi novantenne, a un passo dalla fine, ci dice splendidamente che da qualunque baratro di silenzio la poesia risorge «candore e canto».
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