«Un romanzo - dichiara Irène Némirovsky in unintervista del 1930 - ci consente di penetrare in un determinato ambiente: ce ne impregniamo, lo amiamo o lo detestiamo. Ma una novella è una porta che per un istante ci fa intravedere una casa sconosciuta e che subito si richiude». E questo parrebbe il racconto che Adelphi presenta ora singolarmente, in uno dei suoi eleganti libriccini della Biblioteca Minima (La moglie di Don Giovanni, pagg. 63, euro 5,50, per le ottime cure di Giorgio Pinotti): la narrazione dellepisodio che segna il destino di una famiglia, così come lo svela, dopo molti anni, la domestica Clémence alla sua amata «Signorina».
In realtà La moglie di Don Giovanni è qualcosa di più: è un piccolo romanzo, dalla sapienza compositiva che nella scrittrice ben conosciamo, equilibrato in ogni sua parte e, diciamo così, esaustivo, cioè in grado di soddisfare qualsiasi nostro desiderio di saperne di più. Del resto la Némirovsky stessa teorizzava l«economia di mezzi»: e il testo in questione è felicissima applicazione della teoria. Il racconto è uno di quelli (una trentina circa) che testimoniano della sua collaborazione ad alcune testate, Gringoire, la Revue des Deux Mondes, la Revue de Paris, Candide e Marie-Claire. In particolare La moglie di Don Giovanni uscì nel 1938 in Candide, quindi incluso nella raccolta postuma Dimanche et autres nouvelles (Stock, 2000): di tutto ciò ci informa il curatore, che firma anche una postfazione in cui si analizza la tipologia femminile nei racconti della Némirovsky, per giungere a dimostrare quanto se ne discosti la donna protagonista di questo. Donne che procedono in genere al «passo cadenzato della fatalità», che subiscono rassegnate il loro destino, pulzelle invecchiate, mogli deluse o terribilmente annoiate, «madri-orchesse» dallimplacabile, «micidiale istinto demiurgico», ma poche o nessuna «capaci di ribellarsi»: come invece la «Signora» di questo racconto, dimessa nellaspetto, priva - in apparenza -, di qualsiasi orgoglio, soggiogata - in apparenza -, dalla personalità del marito.
È su potenti stereotipi, infatti, che la novella è costruita, e su contrasti violenti: tanto bello e seducente il marito, tanto bruttina o, peggio, insignificante lei. Anche lespediente su cui la narrazione si basa, la confessione in punto di morte della domestica devota, che intende così sgravarsi di una soma troppo a lungo portata («Le cose di Famiglia sono sacre. È in gioco lonore della Famiglia e prima di parlarne bisogna pensarci due volte»), è piuttosto abusato, e talvolta mostra la sua meccanicità. E la storia stessa, il triangolo amoroso che dun tratto si rivela unaltra figura geometrica, un quadrato con lati specchiantisi, è egualmente storia nota. Pure essa si dipana con leggerezza e gravità al contempo, le parole di Clémence ci giungono da una lontananza che è quella del tempo trascorso, le sue massime sono d'una saggezza antica, sulleterno cimento tra uomo e donna («In effetti, Signorina Monique, per essere felice una donna dev'essere bella»); sul rapporto tra donne («Tutte quelle signore che la compativano e dicevano che era una Martire l'avrebbero fatta a pezzi come tante cagne, perché è così che le donne sono spesso luna per laltra») e sullamore, dinanzi al quale cade ogni ironia; lamore è un fatto grave, tanto che solo la morte, si sa, può stargli a pari: «Ma per il Signore e la sua amica evidentemente era vero amore. Arriva come un ladro. Neanche sappiamo il suo nome e già ci ha preso il cuore».
In fondo è Clémence la vera protagonista della storia, dallocchio onniveggente: lei incarna il nucleo sacro della famiglia contro le forze che ne minano la coesione. Clémence comprende e cerca di spiegare le motivazioni di tutti. Perché tutti, sempre, hanno ragione, ovvero nessuno ha torto, nelle vicende della vita; e facile sarebbe giudicare a posteriori.
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