Kubrick fotografo, la cinepresa può attendere

«C'è un aforisma assai noto che dice che quando un regista muore diventa un fotografo. E' un'osservazione acuta, ma un po' superficiale e di solito proviene da quel tipo di critici che si lamentano perché un film ha una fotografia troppo bella. Ad ogni modo ho iniziato come fotografo. Ho lavorato per la rivista Look dai diciassette ai ventuno anni». A parlare così è Stanley Kubrick, cineasta scomparso nel 1999 diventato leggenda grazie a pellicole-icona come Shining, Lolita, Full Metal Jacket o Eyes Wide Shut e ora celebrato nel suo lato più nascosto nella mostra dal titolo Stanley Kubrick fotografo 1945 - 1950, aperta da giovedì fino al 4 luglio a Palazzo della Ragione (info: 02-43353522). Su di lui si è scritto moltissimo e sui suoi film anche di più. Ma pochi sanno che la sua carriera iniziò come fotoreporter nel 1945, quando fu assunto grazie a uno scatto realizzato in occasione della morte del presidente Franklin Delano Roosvelt che ritraeva un edicolante rattristato dalla notizia. Quell'immagine fu acquistata da Look per 25 dollari, e gli valse un contratto che lo fece rimanere in redazione fino al 1950, poi lasciò l'incarico per dedicarsi al cinema. Un assaggio di Kubrick alle prese con la fotocamera l'avevamo avuto con la mostra di Roma (a Palazzo delle Esposizioni a fine 2007; proponeva memorabilia: appunti, filmati, oggetti e scatti scovati nel suo archivio privato), ma la rassegna milanese, curata da Rainer Crone e realizzata in collaborazione con la Library of Congress di Washington e il Museum of the City of New York, raccoglie in prima mondiale circa trecento opere, molte inedite e stampate da negativi originali, realizzate in quei primi passi nella creatività. «Quell'esperienza per me ebbe un valore inestimabile - disse in un'intervista rilasciata a Michel Clement - non solo perché imparai un sacco di cose sulla fotografia, ma anche perché mi fornì una rapida educazione su come andavano le cose nel mondo. Mi divertivo tremendamente a quell'età, ma alla fine quegli abiti mi diventarono stretti, specialmente perché la mia massima ambizione era sempre stata quella di fare cinema. Occasionalmente avevo l'opportunità di fare una storia interessante su qualche personaggio. Una di queste fu su Montgomery Clift, agli inizi della sua brillante carriera. La fotografia certamente mi fece compiere il primo passo verso il cinema. Per girare un film interamente da soli, come feci inizialmente io, si può non saperne molto di tutto il resto, però bisogna conoscere bene la fotografia». Resta in eredità un patrimonio di oltre 20mila negativi che testimoniano la sua capacità di documentare la vita quotidiana dell'America del dopoguerra e il suo gusto nel raccontare storie di personaggi celebri o dei bambini, della gente di strada, dei musicisti di dixieland che allora spopolavano. Stupefacenti le inquadrature della New York di quegli anni, già capitale del moderno occidente e grazie al suo obiettivo trasformata in mistero, dinamismo, atmosfera. Il suo sguardo era già profondo, maturo nonostante la giovane età. Sperimentando, cercava l'anima dei personaggi, fremiti di emozioni, pose inusuali, particolari punti di vista, senza tralasciare il contesto in cui si muoveva, quasi a voler rappresentare, più che documentare, un'epoca.

Le opere esposte a Milano mostrano già gli elementi stilistici che hanno segnato la sua produzione cinematografica: l'attenzione maniacale per l'immagine perfetta, per le lunghe inquadrature meditative, per i lenti movimenti in camera, per i giochi di specchi, per un'ambiguità mai svelata. Come sul grande schermo, anche da fotografo Kubrick fu antimilitarista, psicologo, veggente e rivoluzionario, sempre all'inseguimento delle contraddizioni ambigue che muovono il mondo.

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