Essendosi sempre - e copiosamente - vantato dei successi riscossi da sindacalista nelle trattative, un giorno si chiese a Franco Marini se avesse una tattica particolare. In pratica,quale fosse l’arma segreta. «Semplice, anche se non più applicabile purtroppo», raccontò sospirando. «Le riunioni sindacali si tenevano in stanze che col passare delle ore diventavano più nebbiose della Val Padana. Io stesso accendevo spesso il toscano o più raramente la pipa, per rendere la coltre più fitta, l’aria più irrespirabile. Allora si cominciava tardi e si tirava assai tardi, di solito fino alle quattro o cinque del mattino.Io a quell’ora mi alzavo dal tavolo e spalancavo ogni finestra possibile. “Cambiamo l’aria”, proponevo. Il più delle volte quella botta d’ossigeno improvviso, più l’aria fredda del mattino, aveva uno strato effetto: stordiva le controparti, già esauste e col cervello in fumo. Così firmavano gli accordi. Per sfinimento ».
Si può perciò capire come il lupo della Marsica («Mai che ne avessi visto uno, al paese mio») parta candidato numero uno alle prime votazioni per il Quirinale rischiando di ritrovarsi presidente della Repubblica stasera stessa. Per sfinimento. Il momento della politica attuale è esattamente quello di una trattativa infinita e fumosa, le contrapposizioni pervicaci, e un mediatore instancabile come Marini sarebbe forse davvero l’uomo giusto al momento giusto. Anche se magari non proprio al posto giusto, vista la non esaltante prova fornita dallo scranno di Palazzo Madama e la carenza di rapporti che contano all’estero (potrebbe non essere un gran danno).
In verità, visto dalla prospettiva dell’ex successore di Donat-Cattin nella guida della corrente dc di Forze nuove, e poi di Pierre Carniti alla Cisl, il momento «giusto» sarebbe già scoccato quattordici anni fa, quando Marini si arrampicò su ogni tipo di specchio e di argomento affinché, dopo Scalfaro, toccasse ancora a un cattolico sul Colle. Ovviamente se stesso. Gli era stato promesso da Massimo D’Alema l’autunno prima, quando assieme avevano fatto crollare il governo di Romano Prodi per far sedere D’Alema a Palazzo Chigi.Ma in quella partita, la madre di tutti gli «inciuci», la cambiale restò inevasa: forse neppure soltanto per negligenza dalemiana, quanto per la vendetta prodiana che armò la mano di Veltroni infilando Ciampi al Quirinale.
L’errore di colui che veniva, dai tempi di Donat-Cattin, tacciato di essere uno che «ammazzava col silenziatore» fu clamoroso.«Da D’Alema mi difendo io», ebbe la sfrontatezza di dire. Non è detto che ancora oggi quelle beffarde parole non risuonino nelle orecchie. Essendo Marini uno che non dimentica e, per giunta, iscritto da tempo al club dei «sordi selettivi », quelli che a volte non sentono davvero, ma più spesso solo ciò che non vogliono sentire.
Figlio di Totuccio, operaio della Snia di Viscosa di Rieti e vedovo prematuro, primogenito di sette, appassionato di ciclismo e alpinismo, Marini comunque è uomo fortunato. Continuò gli studi per felice intuizione di una professoressa, si ritrovò alpino a Bressanone, poi sindacalista alla scuola di Giulio Pastore, ha attraversato il mondo democristiano attingendone i pregi e raramente pagandone i difetti. Forse memore di un avvertimento che gli aveva dato Cossiga quando aveva deciso di fare il gran salto dalla Cisl - nella quale aveva fatto fuori i fusionisti che premevano per l’unione con Cgil e Uil alla politica. «Guardati dagli effetti nocivi della democristianità », gli disse.
Pragmatico e dunque assai duttile, Marini è capace di immergersi e riemergere quando meno ce lo si aspetta. Da «nemico » di corrente di Andreotti diventò ministro del Lavoro in un suo governo. Non senza essere riuscito a sbaragliare sul campo lo «Squalo» Vittorio Sbardella, gran collettore dei voti andreottiani nella Capitale. Nella seconda Repubblica, nonostante tutti i marosi, è riuscito a restare sempre a galla senza affondare mai. Semmai sono statelasciate colare a picco le navicelle sulle quali è via via salito: dal Ppi (che con lui toccò il minimo storico, prima di essere lasciato agli epitaffi di Castagnetti) alla Margherita (dove riuscì a conciliare rutelliani e prodiani ora sbucando a destra, ora a sinistra).
Della creazione del Pd è stato prima fiero oppositore ma, appena ha considerato ormai vittoriosa la linea di fusione, è agilmente saltato sul carro, diventato uno dei maggiorenti più capaci di mediazione e di suggerimenti al gruppo dirigente. Specie nelle battaglie congressuali.Nella sua nascita c’è un destino: San Pio alle Camere si chiama il suo paese. Da bimbo sognava il Corsaro Nero. In definitiva servirebbero entrambi, in un momento come questo.
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