L’Apocalisse rock di Bono esalta i 70mila di San Siro

Trionfo della band irlandese nel primo dei tre concerti italiani. Veemenza e ideali s’intrecciano in «Vertigo» e in «One». Il cantante dice: «Non diventiamo mostri per battere i mostri»

Cesare G. Romana

da Milano

L’avvio è già una dichiarazione d’intenti, non sarà un happening consolatorio, questo nuovo concerto degli U2 transitato ieri, e in replica stasera, tra il cemento bollente di San Siro. «La notte è piena di buchi/ le pallottole squarciano il cielo/ d’inchiostro e d’oro», canta infatti Bono, dal suo palco faraonico: e tutto il resto avverrà di conseguenza, in questo show che è anche un riepilogo d’angosce epocali, la guerra la miseria la fame la droga, non certo uno scampolo d’ordinario entertainment.
Un’Apocalisse, semmai, come qualche cronista l’ha già definito, questo tour salpato a fine marzo dalla California e ora in scalo da noi, con onori trionfali. Adeguati d’altronde al fasto della messinscena, ché per gli U2 grandezza e grandeur sono quasi sinonimi, non meno che all’urgenza impietosa dei contenuti. Così eccoli, i quattro: neri, irlandesi e indomiti sul palco galattico, ad attanagliare la folla due chele - passerelle - striate di nero e di rosso, i colori-guida di How to dismantle an atomic bomb ma anche della bandiera anarchica, sarà un caso. E la pioggia di coriandoli infuocati, le luci roventi, i megaschermi che eruttano incubi e speranze, le cortine semoventi istoriate di simboli, gli effetti e talora effettacci d’uno spettacolo che ritrova la grezza impazienza del rock pur nel trionfo dell’ipertecnologia.
Allora, «dammi quel che voglio e nessuno si farà male», invoca Bono in Vertigo: dà voce a tutti i marginali e ai vinti del mondo, fa suo il sogno di Luther King e Mandela e la chitarra di The Edge accende interiezioni frementi, Mullen e Clayton ritmano inesorabili, la folla canta all’unisono e così ha ragione Bono, «uno l’amore, uno il sangue, una la vita/ la vita in reciprocità», dice il testo di One. Che è poi il senso di questo concerto solidale e ruggente, dove il dramma dell’Africa incombe dagli schermi (Where the streets have no name), e reitera la battaglia di Bono, avviata con Jovanotti in un lontano Sanremo, per la riduzione del debito ai paesi affamati. Dilaga lo spirito del recente Live 8, il suo afflato civile. Si parla di ragazzi difficili «curati» con l’elettrochoc (The electric Co.) e di diritti disattesi (Running to stand still: sugli schermi la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, era il 1948), d’avidità e di violenza intrecciate («Dicono che questa è l’età dell’oro/ ed è per l’oro che scateniamo guerre») e appunto dei venti di guerra che tuttora flagellano il mondo. Come in Sunday bloody sunday, sul fondale rosseggia un cielo di sangue, Bono cinge una bandana sulla quale la parola Coexist affianca, con ardita sintesi grafica, la mezzaluna islamica, la stella ebraica e la croce cristiana.
Figlio d’un cattolico e d’una protestante, dunque uomo di fede non restio al dubbio - «più cose vedi e meno ne sai», afferma in City of blinding lights - Bono racconta dunque la «sua» religione, laicamente vissuta come paladina dei miseri e tramite di riscatto sociale. Si cita, in 40, il salmo davidico: «in questa grande assemblea ho proclamato la giustizia», annunciava il testo originario ed è da qui che Bono, moderno giullare di Dio, trae la sua sola vera certezza. La giustizia, appunto: così il profeta d’un mondo disfatto s’erge a messaggero di speranza, nel suo modo eccitato ed estremo. E la scaletta ospita titoli beneauguranti: Elevation, New year’s day, Beautiful day, Love and peace of else. E perfino la privatissima commozione di Sometimes you can’t make it on your own, omaggio al padre defunto, diventa invito alla solidarietà universale.
«Non dobbiamo diventare mostri per sconfiggere i mostri - grida Bono - facciamo, con la musica, la storia che dovrebbero fare Bush e Blair». E l’energia tumultuosa, le irruzioni a passo di carica nel cuore della folla, l’asprezza dei suoni e dei ritmi, l’impazienza febbrile del canto, il vitalismo invasato non sono soltanto un richiamo alla purezza originaria del rock, diventano spunto di condivisione per settantamila cuori in festa. Del rock richiamando la primigenia sintassi, la veemenza primordiale ma anche il lato solidaristico e a suo modo «politico»: nel senso alto del termine - politica come l’arte e la scienza del convivere dentro una polis -, e in questo caso la polis è il mondo, il rock è il suo esperanto.

Magari diviso in sotto-linguaggi diversi: il più martellante e selvaggio, con l’iniziale Vertigo, quello arcaico del gospel, in I still haven’t found what I’m looking for, quello epico di City of blinding lights, quello dell’introspezione struggente, Miss Sarajevo, canto da brividi.

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