Il presidente degli Stati Uniti è convinto che il mondo sia oggi «unito sulla questione del nucleare iraniano», a differenza di quanto accadeva all’inizio del 2009 quando lui, Barack Obama, si insediò alla Casa Bianca, offrendo a Teheran un ramoscello d’olivo che fu respinto con sdegno. Sulla base di questa certezza Obama, pochi giorni dopo la pubblicazione dell’inquietante rapporto dell’agenzia atomica dell’Onu sugli ambigui progressi del programma nucleare dell’Iran, ha annunciato ieri che nelle prossime settimane insisterà con Mosca e Pechino per ottenere nuove sanzioni contro il regime degli ayatollah.
A parte il fatto che tanto i russi quanto i cinesi hanno già manifestato chiaramente di essere contrari a sanzionare l’Iran, pare legittimo domandarsi da dove venga al presidente americano tutta questa sicurezza sull’unità del mondo a tale riguardo. Basterebbe dare un’occhiata alle dichiarazioni dei leader politici dei principali Paesi (e noi ora lo faremo) per accorgersi che è vero proprio il contrario. Obama, dunque, ha detto che gli Stati Uniti «esploreranno ogni strada per verificare se possiamo risolvere questo problema per la via diplomatica, che resta la via privilegiata anche se nessuna opzione è esclusa». Poco dopo il ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov ha detto di considerare «chiusa la strada delle sanzioni» che Obama aveva appena definito «enormemente produttiva» tanto da far ritenere opportuno di incrementarla: Lavrov è stato molto chiaro e ha detto che Mosca ritiene che vi sia una «campagna orchestrata» contro il programma nucleare iraniano per «alimentare la tensione» ed «imporre nuove sanzioni»: per lui non resta dunque che la via del negoziato.
Tutt’altra musica quella suonata dai britannici: il ministro degli Esteri William Hague (da Bruxelles dove partecipava a un Consiglio degli Esteri dell’Unione Europea convocato appositamente) ha detto chiaramente che l’opzione militare «deve rimanere sul tavolo anche se noi non vi facciamo appello né la auspichiamo». Il che non stupisce più di tanto, visto che da giorni i giornali inglesi parlano di manovre militari già cominciate in vista di un attacco all’Iran.
Con Londra si è schierata l’Olanda, ma tanto per smentire il frusto cliché della concordanza di vedute europee Hague è stato subito smentito dal collega tedesco Guido Westerwelle, per il quale di operazioni militari contro l’Iran «non si deve neppure parlare». E con Berlino si è allineato il minuscolo ma assertivo Lussemburgo, il cui ministro degli Esteri Jean Asselborn ha definito «devastanti» le conseguenze di un eventuale blitz sull’Iran, dicendosi invece certo che Russia e Cina alla fine concorderanno sulla necessità di sanzioni perché «non posso immaginare che abbiano un interesse al fatto che l’Iran disponga di una bomba atomica»: e se invece ce l’avessero? D’accordo coi tedeschi e in disaccordo coi britannici il francese Alain Juppé, che considera un’azione di forza «un rimedio peggiore del male» e la cui ricetta è «dobbiamo prepararci a rafforzare le sanzioni» anche se «la disponibilità dell’Iran è pari a zero».
Così riassunta «l’unità del mondo sulla questione iraniana», non resta che allinearsi all’ottimismo di Obama: in effetti, la situazione può solo migliorare.
Israele intanto continua a richiamare il mondo «ai suoi doveri verso l’Iran», ma sembra anche darsi da fare per conto proprio.
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