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L’Onu invierà 26mila caschi blu nel Darfur

da Washington

Dieci anni e 200mila morti dopo, il mondo si è messo d’accordo sul Darfur. Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è finalmente arrivati all’accordo e al voto su una risoluzione franco-inglese «limata» nei dettagli e nelle virgole fino a che non è diventata accettabile anche per la controparte più tenacemente critica, la Cina, che ha di conseguenza annunciato che non avrebbe fatto uso del suo diritto di veto.
Il documento autorizza l’invio di 26mila tra soldati e agenti di polizia in quella martoriata regione del Sudan meridionale ai sensi del capitolo VII della Carta dell’Onu, quella che definisce i casi di «azione necessaria» (eufemismo legale per indicare l’uso della forza), per l’autodifesa del personale delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana, per assicurare libertà di movimento ai portatori di aiuti umanitari e, questo il punto più significativo, «proteggere i civili minacciati dalla violenza». È quest’ultimo, naturalmente, lo scopo della missione, la cui composizione è stata calibrata fino ai limiti del più surreale assurdo burocratico: essa si comporrà di 19.555 soldati, 360 «osservatori militari», 19 unità da 140 agenti di polizia più una componente di 3.772 civili. In linea di principio, la parte preponderante delle unità dovrebbe essere fornita dai Paesi africani, con un contributo extracontinentale nell’eventualità, ampiamente prevista, che i primi non bastino. Fra le maggiori potenze, gli Stati Uniti non invieranno truppe civili, ma daranno un contributo finanziario e collaboreranno al trasporto del personale.
La guida morale della spedizione, ufficialmente non dichiarata, sarà della Gran Bretagna e della Francia, come sottolineato dalla presenza al Palazzo di Vetro dell’Onu a New York, nelle ore decisive dei negoziati, del nuovo premier Gordon Brown, autore assieme al presidente francese Nicolas Sarkozy del progetto nella sua forma definitiva. Le trattative più delicate riguardavano la scelta delle parole e degli aggettivi. Il rappresentante di Pechino alle Nazioni Unite, Wang Guangya, si è battuto per limitare al minimo la menzione stessa dell’uso della forza. Sempre su pressione cinese sono stati eliminati dal documento originale della risoluzione il diritto alle forze dell’Onu di «sequestrare» armi illegali, sostituito dall’autorizzazione a «tenerle sotto controllo» e ogni accenno alla minaccia di sanzioni. Parigi e Londra hanno finito con l’accettare queste modifiche, insistendo però, nelle parole di Gordon Brown, che se continueranno le violenze e le uccisioni «dovremo raddoppiare i nostri sforzi per imporre misure più energiche». Brown era comunque soddisfatto: «Oggi è una giornata importante per il Darfur, dove è in corso la maggiore catastrofe umanitaria del momento».


C’è un precedente storico abbastanza significativo nell’iniziativa congiunta anglo-francese: poco più di un secolo fa, proprio quella regione del Sudan meridionale fu teatro dell’«incidente di Fashoda», che minacciò di scatenare una guerra coloniale fra i due imperi.

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