Va bene, bisogna ammetterlo, perfino il mio vicino di scrivania mi è mancato (un pochino). Perfino quel collega molesto, quello che ti parla nel preciso momento in cui stai cercando di concentrarti, o che urla mentre stai parlando al telefono - è una cosa un po' delicata, potresti abbassare un filino la voce? o scomparire con un bell'Evanesco? Non sapete che cosa sia l'Evanesco? Serve, in Harry Potter, a far sparire gli oggetti... - o che ti fa domande in continuazione, domande inutili alle quali è inutile rispondere, però sì, anche quelle sue domande mi sono mancate (con moderazione). È la loro inutilità, a essermi mancata. Il vocalizzo senza fine (in ogni senso, spazialtemporale ed escatologico).
Mi è mancata la scrivania, a suo modo: anche se perennemente bisognosa di pulizie, ingombra di qualsiasi carta o libro o residuato della Seconda guerra mondiale (non ridete, su quella del mio dirimpettaio è possibile trovarne, e vi spiegherà nel dettaglio di che cosa si tratta... e anche questo mi manca un pochino), troppo stretta quando va stipata e troppo larga quando c'è da trovare qualcosa, con la sedia scomoda, e la luce del neon che ogni tanto saltella incerta, ricordandomi una notte insonne d'ospedale. Zzzzzzzzzh... sì, anche le zanzare, in estate, perché in redazione non ci sono le zanzariere. Loro però non mi mancano.
Da mesi, il lavoro è smart: gli spazi sono più ristretti, i tempi sorprendentemente più irreggimentati, le persone intorno, beh, quelle sono molte di meno. Il lavoro, quello non smart, fatto di passi sul pavimento (alcuni concitati, altri che fanno temere il peggio, come quando arrivava quel caporedattore col tacco imperioso...) e telefonate e voci che si rincorrono e si sorpassano e a volte si raggiungono, il lavoro «in presenza» come si dice adesso della didattica che avevamo sempre considerato «normale», è un'altra cosa, difficile (e inutile anche, al momento) dire se meglio o peggio, dipende dal lavoro, dal lavoratore, dall'ufficio, dall'abitazione e, molto, dall'attitudine del singolo, ma comunque un'altra cosa: e, a volte, è una cosa che manca.
La macchinetta del caffè. Hai tu la chiavetta, io l'ho persa, non la trovo più, andiamo a chiedere i soldi al tal dei tali, che li ha sempre. Poi te li ridò (e se c'è stato il Covid, che ci posso fare, dovevo tornare per ridarti le monetine? Dai).
Il pranzo fuori, con chi vai e dove, quel fantastico sushi dove rovescio sempre la soia, ma il mio capo fa finta di niente e ci torniamo (tornavamo) sempre, e io la rovescio ogni volta, come se la gaffe fosse una calamita, un destino ineluttabile, quello di lasciargli la tovaglia marrone. Buonissimo, quel sushi. Poi il caffè da Marchesi, quando c'è tempo (si può dire Marchesi, è un locale storico di Milano). O il gelato in quella gelateria della quale non posso dire il nome, penso, se no sembra pubblicità, ma è squisito.
Il collega con il sigaro in bocca, anche se non lo fuma. Quello che mette i piedi sul tavolo, come i texani nei film. Quello che picchietta. Quello agitato. Il collega più taciturno di tutti, senza il quale anche il silenzio non è più lo stesso.
Insomma, queste piccole cose. Dice il Piccolo Principe che sono i riti a creare i legami fra le persone, ma è vero anche il contrario, che sono i legami fra le persone a creare i riti.
Il lavoro è questo, legami e riti, riti e legami, perché il lavoro è fatto di persone, dei loro rari pregi e dei loro innumerevoli difetti, che nei riti, e nei legami, trovano quasi un senso. E qualche volta, fra un ostacolo e l'altro, fanno pure divertire.
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