"Servono riforme più coraggiose. Il salario minimo? Sì, ma non basta"

L’esperto Marco Bentivogli: "Occorre promuovere contratti territoriali legati a produttività e risultati"

"Servono riforme più coraggiose. Il salario minimo? Sì, ma non basta"
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Marco Bentivogli, esperto di politiche del lavoro, co-fondatore di Base Italia ed ex segretario Fim-Cisl, il basso livello dei salari riposa su una spirale perversa (bassa produttività-bassi salari-bassa produttività). C’è una soluzione per uscire da questa impasse?

«Il dato stagnante della nostra produttività si riferisce ad una media tra pubblico e privato, terziario e industria, piccole aziende e quelle più grandi. I fattori che congelano la nostra produttività sono: 1) la taglia dimensionale media delle imprese troppo piccola, 2) la difficoltà a dotarsi di tecnologie e competenze (l’Ocse dice anche che siamo un paese intrappolato nel low skilled equilibrium), 3) l’accesso al credito 4) burocrazia e inefficienza della Pubblica amministrazione, 5) non siamo uno stato di diritto, l’unica certezza è il contenzioso giudiziario e la sua lunghezza. Senza riforme coraggiose sarà l’ennesima sceneggiata».

L’Inapp suggerisce di aumentare la diffusione dei premi di risultato. Cosa ne pensa?
«La produttività va diffusa dove si crea, in azienda. Concordo, ma va diffusa la contrattazione. Serve quella “di produttività” territoriale per le piccole imprese per accompagnarle a modelli organizzativi, tecnologici e di competenze nuovi.
Dobbiamo dotarci di una rete che colleghi i centri eccellenza di innovazione. Sono pochi quelli veri e scollegati. Le risorse vanno tutte alle università che hanno un ruolo straordinario nella ricerca di base. Resta sguarnita la ricerca applicata, l’innovazione che trasforma la ricerca in prodotti, processi e competenze correlate. Serve una rete sul modello del Fraunhofer tedesco (istituto pubblico tedesco che connette 75 istituti di ricerca al mondo delle imprese; ndr)».

Le opposizioni hanno invece puntato tutto sul salario minimo. Non è meglio forse rafforzare la contrattazione?
«Venti anni fa avrei risposto diversamente. Ma il campo di applicazione reale dei contratti si è ridotto. Avere inflazione altissima e più della metà dei lavoratori con contratti non rinnovati è inaccettabile. Ci sono troppi lavori dipendenti mascherati da autonomi con finte partite Iva, troppi part time involontari. La Caritas nell’ultimo rapporto ci dice che un quarto di chi va agli sportelli ha un lavoro. Il lavoro povero sta crescendo e un arroccamento del sindacato non ha senso. Come non è vero che il salario minimo risolverà tutto».

Il tema della produttività è direttamente connesso all’organizzazione del lavoro. Secondo lei, quale strada occorre percorrere tra lo smart working e la settimana corta?
«Il digitale riduce le mansioni routinarie ripetitive, “scongela” spazio (luoghi fissi) e tempo (orari fissi) del lavoro. Il tempo di lavoro sarà sempre meno rilevante, lascerà spazio e maggiore rilevanza ai risultati, ai progetti al lavoro di qualità. A condizione che venga ripensata completamente l’architettura del lavoro e la sua contrattualistica. La settimana corta sarà una positiva fase sperimentale di orari meno rigidi e più a misura della persona. Lo smart working, quello vero aumenta produttività e benessere. Non si tratta solo di “lavoro da casa” ma di una dimensione completamente nuova del lavoro e dell’impresa fatta di autonomia, libertà, responsabilità e fiducia».

Il problema della produttività richiama anche l’annosa questione dello skill mismatch, cioè delle carenze della formazione. Secondo lei, le politiche attive hanno fallito?
«L’Italia non crede nelle politiche attive.

I centri per l’impiego hanno trovato lavoro al massimo al 3,78% di chi si è rivolto a loro. L’ultimo governo li ha riempiti di soldi senza ripensarli come meriterebbero. Se un’auto non funziona, non è che riempiendo il bagagliaio di taniche di carburante risolva il problema».

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