Caro Direttore!
Nella cella di Lele Mora sono appese alle pareti tre immagini di donna. In ordine alfabetico: la Madonna di Medjugorje, Madre Teresa di Calcutta e Moira Orfei. Sono le sue tre sante e amiche. Il letto è cosparso di lettere aperte. Mi riceve in piedi. È la terza volta che sono da lui, anzi siamo: c'è Alfonso Papa nel gruppo, con una commissaria di polizia penitenziaria che annota ogni parola detta. È irriconoscibile, ma sorride. È contento di vedere persone che mostrano di volergli bene. Io non riesco a riconoscerlo.
Dentro la barba, il volto tondo si è sgonfiato come pallone di cuoio dell'oratorio, ma apre i denti nel sorriso della gioia. Ho imparato in questi tre anni che sono deputato e visito le prigioni e migliaia di detenuti a leggere i segni delle celle. A Monza la mattina ho visto la cella numero 5 dell'infermeria, ora vuota. Qui con il gas si è ucciso pochi giorni fa il detenuto Schillaci, era malato e depresso, i libri sono stati lasciati come lui li aveva impilati, qualcosa di religioso, di filosofico, addirittura in lingua straniera. Un ordine segno di infinito disordine del mondo.
Qui a Opera c'è un uomo pericoloso solo per se stesso. Bisogna stare attenti, lo dico con tremore. C'è lo strano ordine come di chi voglia andarsene lasciando però le cose a posto, i libri bene allineati, i conti che tornano, le lenzuola per rimboccate, che i figli non si vergognino se lo trovassero morto.
Nella cella accanto ronfa, nel disordine, Olindo Romano, l'ergastolano di Erba. Le volte precedenti avevo potuto parlargli e l'unica cosa che domandava era di rivedere presto Rosa, di essere trasferito nel carcere di Bollate, ma sorrideva: era contento di aver potuto rifare la patente. Invece Lele Mora era depresso e non esitava a mostrarlo. Stavolta no. Parla della sua depressione come un fatto remoto. I giorni di Vallettopoli nel 2008. Ogni giorno una rivelazione sul giornale, l'abbandono di tanti che aveva lanciato. L'infamia come pena preventiva. Ne discese inevitabile il fallimento. Interessante: l'inchiesta che ne ha causato il crack è finita con il proscioglimento. Bravo Woodcock.
Mora ricorda di come abbia scoperto Belen, a Cortina. «Allora non aveva neanche il permesso di soggiorno». Ricorda quando accompagnò Enrico Mentana in America: era stato lui a fissargli un appuntamento con Obama, perché il collaboratore era una vecchia conoscenza di Lele. Poi Vallettopoli e la depressione.... «Mi mettevo a letto, non riuscivo ad alzarmi, non mi interessava, la luce del mattino era come la notte, mi afflosciavo, nessun senso». Qualche amico lo cura, lo ama, ma il mondo è ostile. Il mondo che un attimo prima ti implorava un appuntamento, un'occasione per parlarti... Ora zero, sottozero, merda in faccia, e lui sotto le coperte.
Il colloquio è pieno di ricordi, di promesse di futuri brindisi al ristorante «l'Ambasciata di Quistello» dei fratelli Tamani, dove un secolo fa propose Anna Falchi a Federico Fellini per un film pubblicitario per la Banca di Roma. Il ricordo di chi non c'è più è quasi trasognato, come se fosse lì lì per rivederli tutti, come Alberto Castagna, da lui scoperto, e poi caduto in malattia e sostenuto in ogni suo bisogno «e anche di più» da Silvio Berlusconi.
Poi non c'è molto da riferire. Ma la mia paura. Due giorni prima Lele Mora aveva provato a fare qualcosa come un tentato suicidio di cui non parla. E oggi, mamma mia, appare raggiante. Elogia gli agenti, il trattamento, prende 35 pillole al giorno, 35 come i chili che ha perso innaturalmente. È isolato da agosto. Non una decisione punitiva, ma per preservarlo come uomo famoso da contatti petulanti. O forse no.
Questa lettera è per dire che Lele Mora non può stare in carcere, se esiste giustizia, se vale ancora l'articolo 27 della Costituzione che recita di umanità della pena. Non lo dico perché sono amico di Lele Mora (lo sono diventato in carcere) ma per l'evidenza delle cose. Se si scorrono i commenti dedicati a Mora sui siti internet, la più parte è di godimento per le sue pene, proprio un piacere sadico. È il destino di chi cade da una posizione sociale alta nella feccia carceraria, e scivola nel catrame dopo una vita immersa nello champagne. Proprio la sua notorietà impone di occuparsi di lui. Di lui a nome di tante altre sofferenze simili, di cui potrei fare cento nomi (Colelli, ad esempio) ma che non leggerebbe nessuno. Ma dietro Mora, che è unico e irripetibile, come lui, diversi da lui, ci sono centinaia e migliaia così.
Io non chiedo di sospendere il corso della giustizia, ma di applicarla nel suo rigore. Il rigore impone di vedere tutto, anche la flagranza di reato di uno Stato che disattende le sue norme. La legge impone, ictu oculi (linguaggio giuridico), di tirar via dal carcere Mora. Lo sarebbe anche se la pena fosse definitiva. Le condizioni di salute hanno consentito la sospensione della pena ad esempio ad Adriano Sofri, oppure gli arresti domiciliari ad altri.
Ma qui siamo dinanzi a un caso di custodia cautelare. Di carcere preventivo! Infatti, come spiega bene Annalisa Chirico su Panorama.it, contraddicendo i soliti orgasmi carcerari di Marco Travaglio, Lele Mora «ha patteggiato 4 anni e 3 mesi per bancarotta fraudolenta; la sentenza tuttavia non è esecutiva perché pende un ricorso in Cassazione. In condizioni fisiche assai gravi Mora sconta quindi quintali di carcere preventivo». Depressione+diabete +ipertensione? Crèpa.
Pare che la sentenza del Tribunale del Riesame, che doveva essere prima di Natale, sia stata tardata dalle legittimissime ferie di alcuni giudici.
Ma arcilegittimissimamente ora Lele Mora avrebbe dovuto essere mandato a casa, vigilato, vigilatissimo, senza telefoni, ma come si fa a sostenere che per lui valga «il pericolo di fuga»? L'unico pericolo che c'è è che con questa decisione lo ammazzino.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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