Entusiasmante mostra. Nel mio ruolo di presidente del Mart, con l'impulso a decine di mostre affidate al metodo e all'estro di valorosi curatori, attraversando i marosi di mille polemiche, nessuna mi è sembrata più ricca e completa di questa su Leonor Fini e Fabrizio Clerici. Una coppia di fatto, nell'arte e nella vita, con una complicità che le mille fotografie di momenti inobliabili e obliati documentano, accompagnando dipinti, disegni, scenografie. Intorno a loro si muove un mondo che rappresenta, dopo i lampi di Giorgio de Chirico e Savinio, il campo stretto ma sofisticatissimo, del Surrealismo italiano.
Ho voluto che la mostra fosse ricchissima, per testimoniare non solo gli intrecci tra gli artisti, ma anche le loro diramazioni. La mostra del Mart porta a compimento una riscossa decretata a Venezia nell'ultima Biennale, dedicata alle donne artiste del Novecento, fra le quali dominava Leonor Fini, presente anche alla mostra del 2022 su «Surrealismo e magia. La modernità incantata», al Peggy Guggenheim Museum. L'interesse per Leonor Fini si manifesta anche sul mercato internazionale, in America con l'impegno di Francis Naumann, e a Milano, con la scelta di Tommaso Calabro di affidare a Francesco Vezzoli la cura della mostra dell'anno scorso. Essenziale appare, nell'affrontare Leonor Fini, l'esperienza parallela del sommerso e dimenticato Stanislao Lepri, che di lei fu compagno di vita e di visione, disarmante e inevitabile ménage à trois con Constantin Jelenski, sensibile scrittore d'arte. Su Leonor Fini si concentra l'attenzione critica che crescerà fino ad avvicinarla, anche per inevitabili declinazioni psicanalitiche, a Frida Kahlo.
Mentre l'esperienza surrealista di Leonor Fini è favolosa, quella di Lepri produce incubi, allucinazioni, rivelazioni o disvelamenti. Le creazioni di Lepri sono «ultramondi metafisici» dove si rivela «l'incredibile, l'ambiguo, il contrario, la metafora oscura, l'allusione, l'astuzia, il sofismo», secondo l'interpretazione dei sogni fornite dalla psicoanalisi. Si tratta, a evidenza, della trascrizione di sogni. Ma anche la realtà è un sogno, come si vede nella minuziosa camera di Leonor, dipinta da Lepri, dove ogni quadro e ogni oggetto definiscono lo spirito concorde dell'amica, annuvolata nel letto fra i gatti. Così il misterioso Ristorante di lusso, con ventun tavoli e un solo avventore. Una fantasia irriducibile, fra rinoceronti e gatti, in tempi apocalittici in cui gli Dei se ne vanno lasciando un'umanità di disperati.
Ma c'è ancora speranza finché sopravvive un creatore d'angeli, generoso e solenne, come Fabrizio Clerici. Erede di Savinio e di Giorgio de Chirico, Clerici è il capofila dei surrealisti italiani. Fini e Clerici si incontrarono una prima volta a Parigi, alla fine degli anni Trenta, alla Galerie Jacques Bonjean, fondata dal loro comune amico Christian Dior. Si rividero a Milano e infine a Roma, nel 1943, e la loro amicizia durerà per sempre. Nella seconda metà degli anni Quaranta Clerici frequenta artisti e letterati dell'ambiente intellettuale romano. Nel gennaio del 1945 espone, con Savinio, Leonor Fini, Stanislao Lepri, sia a Roma, sia a New York. L'anno dopo incontra a Milano Tristan Tzara. Nel settembre del 1948, a Venezia, Salvador Dalí. Dal 1949 Clerici inizia la sua attività pittorica. Nel 1953 inizia una serie di viaggi nel Medio Oriente. La prima tappa è la Siria, poi Giordania, Tripolitania, Cirenaica e Turchia: gli ispirano i due temi con cui si misurerà: i Miraggi e i Templi dell'uovo. Nel 1955 presenta alla Sagittarius Gallery di New York la maggior parte delle pitture eseguite in quegli anni. Al ritorno dall'Egitto, Giorgio Strehler lo invita a realizzare le scene per La vedova scaltra di Carlo Goldoni. Nel 1964 inizia la serie di tavole per l'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Nel 1977 prepara tre importanti retrospettive a Kiev, ad Alma Ata, a Mosca.
Sono passati quarant'anni anni da quella bella giornata di autunno del 1983 in cui, nella casa di Ro dove sono vissuti i miei genitori, arrivarono gli amici e gli estimatori di Fabrizio Clerici dopo l'inaugurazione della mostra a Palazzo dei Diamanti per i settant'anni dell'artista. Il curatore era Federico Zeri: la sua autorevolezza come storico dell'arte antica era la miglior garanzia per un pittore colto, trascurato se non ignorato dalla critica, come Clerici, del quale Jean Cocteau, lontano dai pregiudizi e dalle preclusioni della critica nostrana, aveva scritto: «non è forse uno dei prìncipi di questo realismo irreale che sarà il segno distintivo del ventesimo secolo?». Eppure per molti la mostra di Ferrara fu una rivelazione. C'erano Alvar González-Palacios e Mario Tazzoli, Enrico d'Assia e Umberto Tirelli, Indro Montanelli e Colette Rosselli, Federico Fellini e Giulietta Masina, Antonello Trombadori e Carlo Guarienti, Bice Brichetto ed Enrico Medioli, Giorgio Soavi e Giorgio Zampa, Marina Cicogna e Mario Lanfranchi, Pasquale Chessa e Piero Buscaroli, Maurizio Fagiolo Dell'Arca e Tiziano Forni, il coraggioso gallerista di Clerici. E, naturalmente dominante, Federico Zeri. Giornata indimenticabile.
Ma fra tutte era preziosa la presenza di Leonardo Sciascia. Aveva, come Zeri, l'età di mio padre. Era stato lui il primo e il più convinto sostenitore di Clerici nella lunga traversata del deserto per arrivare all'oasi di Ferrara, primo presidio dell'arte contemporanea in Italia grazie all'intelligenza e all'impegno di Franco Farina, l'inventore della formidabile e precocissima stagione delle grandi mostre di Palazzo dei Diamanti. Consumati i Sironi, i De Pisis, i Morandi, i Rauschenberg, i Jim Dine, gli Andy Warhol, aveva pensato bene di perlustrare luoghi più misteriosi e umbratili. Ed eccolo arrivare a Clerici, e l'anno dopo a Leonor Fini; e poi al meraviglioso e dimenticato Gustavo Foppiani. Una stagione di sogni per Ferrara. Ma il rompighiaccio era stato Clerici, e per di più con l'eccentrica legittimazione di Zeri. Nella lunga notte degli equivoci, la voce che si era alzata, nitida e distinta, era quella di Sciascia, indifferente a teoremi e pretese di artisti obbligatori, magari riuniti in rassicuranti gruppi. Il suo primo incontro con Clerici era stato nel 1970 per illustrare la copertina di Atti relativi alla morte di Raymond Roussel. Sciascia ricambiò mettendo al centro di Todo modo un dipinto attribuito a Rutilio Manetti, pittore del '600, visto nella cappella della casa di campagna di Clerici. Sciascia aveva capito la complessità della ispirazione di Clerici, a partire dal Sonno romano generato dalla mirabile immagine di Santa Cecilia di Stefano Maderno: per Sciascia Clerici è artista «al servizio dell'invisibile».
L'accostamento a Leonor Fini e a Lepri lo pone oggi al centro di una agitazione di fantasie e sogni che attraversa l'arte italiana, dalla pittura al teatro al cinema, da Palazzeschi a Fellini, a Tomaso Buzzi, da Venezia a Maser alla Scarzuola. Ed è notevole che il sisma investa artisti dimenticati che segnarono un gusto nell'immediato dopoguerra e fino agli anni Settanta, trovando accoglienza nella galleria dell'Obelisco di Irene Brin e Gasparo del Corso. Qui si ritrovano Pavel Tchelitchew ed Eugène Berman. La visione di Berman è ispirata alla storia antica: busti, propilei, colonne mozze e pendenti, bassorilievi, compulsivamente collezionati. A questa passione l'artista unisce l'attenzione per il paesaggio romano, dando vita a bizzarre vedute in cui convivono evocazioni di rovine settecentesche e civiltà sepolte. Dovremo farlo risorgere, come Colombotto Rosso, Romano Parmeggiani, Enrico d'Assia, Colette Rosselli, il giovane Domenico Gnoli.
Una storia senza fine, che abbiamo iniziato a raccontare. Intanto leggiamo di queste relazioni pericolose, a Venezia, al Foro Romano, a Tor San Lorenzo, a Nonza in Corsica, felici nelle acque del mare, come nel mito. Seguiamo Eros, Giulia, Sabrina. La festa non è finita.
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