L'ETERNO DUELLO TRA JOHN WAYNE E GARY COOPER

L’Europa - il mondo - plebiscita Barack Obama. Ma votano solo gli Stati Uniti. Tutto - sondaggi, peso della crisi finanziaria, economica e sociale, rifiuto di Bush, legge dell’alternanza politica dopo due mandati - fa pensare che Obama prevarrà.
La campagna del candidato democratico è stata la migliore, perché dispone di grosse somme - da uno a due milioni di dollari spesi ogni giorno - e satura le catene tv di validi spot. Età, sostegno di milioni di «militanti» di nuova generazione, talento d’oratore giocano per lui.
Una sorpresa - non solo la vittoria di McCain, ma anche la contestazione di un risultato serrato - però non è impossibile. Difficile infatti valutare l’«effetto Bradley» (candidato nero a governatore della California, favorito nei sondaggi, battuto al voto), cioè la reticenza dissimulata per il nero Obama. Ne deriva la rimonta nei sondaggi di McCain.
Al di là di questi momenti d’incertezza, la campagna si caratterizza per la simbolica posta in gioco. Oltre a due generazioni, ha opposto due percorsi e due tradizioni americane.
Da una parte l’America di John Wayne, di Berretti verdi, di Sylvester Stallone; dall’altra l’America di James Stewart, Gary Cooper, Robert Redford, Frank Capra. Due Americhe, che si coalizzano nel «patriottismo» e nell’idea di un Manifest Destiny, degli Stati Uniti, ma che possono anche affrontarsi violentemente: guerra di secessione del 1860-65, lotta per i diritti civili, maccarthysmo. Da questo punto di vista, McCain e Obama incarnano quelle due forti tradizioni.
Nel grande discorso del 18 marzo, Obama ha evocato il significato storico delle elezioni nella questione razziale. Ma da allora - secondo carattere della campagna - i dibattiti fra i due candidati sono stati poverissimi. Gli spot tv sono stati spesso caricaturali e di dissimulata violenza, ma densi di sottintesi.
Se, sul piano simbolico, la campagna è all’altezza delle poste in gioco, quanto a programmi e soluzioni è stata di una costernante mediocrità. Un «vuoto» nocivo più per Obama che per McCain. Infatti in un certo modo il «salto simbolico» di eleggere Obama è anche un salto nel buio. E se tutti gli osservatori affermano che la «crisi» giova al candidato democratico, chi può dire che all’ultimo momento, in questo periodo tormentato, non si preferirà il «veterano» al brillante novizio? Sono così determinanti le «immagini» dell’uno e dell’altro. Quali echi susciteranno nell’inconscio, nella memoria di ogni americano? John Wayne o James Stewart? Sylvester Stallone o Robert Redford? Il paragone fra Roosevelt, Kennedy e Obama non è pertinente: Roosevelt e Kennedy erano nell’establishment, sebbene il cattolico Kennedy rompesse con la tradizione protestante.
Se razionalmente Obama è favorito, altri fattori spiegano la rimonta di McCain. Ma chiunque sia il futuro presidente, dovrà affrontare immensi problemi. Gli Stati Uniti non sono più l’iperpotenza, il polo dominante. La società americana conosce le più grandi trasformazioni. Le tensioni etniche sono reali. Crudele è la violenza dei rapporti sociali. Che fare? Ma questa potenza indebolita resta un gigante militare (bilancio del Pentagono: mille miliardi di dollari) insabbiato in Irak e in Afghanistan. Thomas Paine disse: «Possiamo ricominciare il mondo».

Convinzione tuttora diffusa negli Stati Uniti e comune a McCain e Obama. Ma forse ormai è solo un’illusione. Pericolosa per il resto del mondo.
Max Gallo
dell’Académie française
(Traduzione di Maurizio Cabona)

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