Nella primavera del 1987, l’economista Federico Caffè uscì di casa e non vi fece più ritorno. In aprile fu fissata la data di morte presunta. Caffè è ridiventato una figura centrale da quando un suo brillante allievo, Mario Draghi, è stato chiamato a «salvare» la patria durante la pandemia da Covid-19. Il corpo non fu mai ritrovato né furono mai chiariti i motivi di questo improvviso addio. Caffè sognava un’economia diversa: lo studio non del modo più redditizio per aggredire il mercato, ma del modo più giusto per distribuire la ricchezza. Un socialista riformista. A spanne: il mercato crea ricchezza, lo Stato si dà il compito di non allargare troppo la forbice tra ricchi e poveri. Per questo, Caffè piace anche alla destra, in particolare al partito del presidente del Consiglio. Secondo le ricostruzioni dei «retroscenisti», Giorgia Meloni sarebbe attenta ai consigli di...
Mario Draghi. Non importa se l’aneddoto sia vero o falso. Conta piuttosto che Caffè sia al centro di un saggio, a cura di Francesco Carlesi, come L’Italia del miracolo, insieme con Enrico Mattei e Adriano Olivetti. Il marchio è Eclettica, l’editore è Alessandro Amorese, deputato di Fratelli d’Italia.
Per raccontare Caffè, e molto altro, Carmen Pellegrino sceglie la strada del romanzo, Dove va la luce (La nave di Teseo). È un libro duro e delicato al contempo, come dura e delicata al contempo è la solitudine, e ancora di più la solitudine dovuta all’assenza, alla partenza, alla scomparsa di chi ci stava vicino.
Si inabissano l’infanzia, la famiglia, gli ideali, gli amori, le successive «versioni» di noi stessi. Alle riflessioni della voce narrante, una donna impegnata a «salvare» il ricordo delle proprie radici, si alterna la storia del famoso economista e del suo amico Milo, un barbone conosciuto per strada, un «fallito», un invisibile che diventa un esempio. La scelta di abbandonare la società e vivere ai margini esercita un forte fascino sul professore. L’economista ha attraversato la breve ilarità del boom economico; la pesante cappa degli Anni di piombo, una strage dopo l’altra, un omicidio dopo un altro; la corsa all’arricchimento senza scrupoli; la fine dell’idea, giusta o sbagliata, che possa esistere una comunità solo se nessuno soffre la fame.
Non è più il mondo di Caffè, votato al bene comune come dirigente di Banca d’Italia, devoto ai suoi studenti, ai suoi laureandi, seguiti come figli.
Dove va la luce? Come nella omonima poesia di Giuseppe Ungaretti, la luce bacia le foglie, si nasconde dietro il tronco, e alla fine della sua corsa, finalmente libera, diventa eterna e illumina un luogo dove regnano la pace e l’amore. La delicatezza ma anche la decisione portano alla «decreazione», un (non) progetto di vita ma anche di stile: «Decreazione è una parola presa da Simone Weil, che aveva un suo piano per liberarsi dell’io, per disfare la creatura che è in noi, e questo meticoloso piano lo chiamava decreazione.
“Non possediamo nulla in questo mondo”, scrive in uno dei suoi quaderni, “se non il potere di dire ‘io’”.
Questo è ciò che dobbiamo rendere a Dio».
Dove va la luce «decrea» anche il romanzo, ponendosi come insieme di frammenti legati da assonanze raramente esplicitate. Alla fine, il minimo comune denominatore di tutte le esperienze è questo: «Solo un filo, una suggestione se si vuole. Ma tra niente e qualcosa, è qualcosa». In questo qualcosa che non si arrende al niente, che si radica nel passato per illuminare il futuro, che si sottrae ai nostri sguardi per farci vedere meglio, che si finge effimero per suggerirci la sua eternità, può anche esserci il senso di una vita.
Il silenzio non deve ingannare, come spiega il professore poco prima di eclissarsi per sempre: «Si fa silenzio in vari modi. Il modo dei morti, che parleranno in seguito. Il modo dei vivi, che hanno chiuso prima del tempo la parabola della vita. Il silenzio degli amanti, a cui non occorre altro.
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