
Vittorio Sgarbi nel suo articolo di domenica sul Giornale «Dall'Alighieri a Battiato, la poesia è arte immateriale», mailintenendo una mia preoccupazione che non è, come lui dice, per «il destino della poesia», se ne parte per una strada che lo porta a concludere che oggi Mario Luzi non è un poeta e Patty Pravo sì.
La ragione, secondo lui, sta nel fatto che dei cantanti si ricordano le canzoni e dei poeti i versi no, eccetto Leopardi e poco altro. Del destino della poesia non son preoccupato per nulla, in realtà. Sono più preoccupato per certi malintesi o pigrizie che ne ostacolano il tramando. Da un lato lo stesso Sgarbi ricorda che suo padre ripeteva versi di poeti, incontrati a scuola presumo. E poeti che certo eran meno ricordati di certe canzoni. Perché la poesia è un'arte che non si misura in successo. Ma in verità. Il mio amico Dalla mi diceva che non voleva farsi chiamare poeta, perché lui faceva canzoni e io poesie e non è che per farmi un complimento mi dicevano «ballerino».
Poesia e canzone sono due arti diverse - specie come si intendono oggi- e la seconda paga un tributo alle mode che alla prima non è necessario. Ungaretti arriva ancora, non mi pare di sentire in giro molte canzoni del 1914. Né del '300 mentre Dante ancora commuove.
Certo i poeti sono più rari, di canzoni che intrattengono e entrano facilmente in testa ce ne sono di più e non necessariamente capolavori «poetici», ammesso che - sempre Dalla me lo diceva- si debba considerare l'autore di «Vamos a la playa» meno bravo nella sua arte di chi è «cantautore». Capisco che Sgarbi - lo confessò lui stesso - come molti che hanno tentato e poi mollato la via della poesia faccia fatica a comprendere come mai Mandel'stam o Eliot non si misuravano sul terreno del «successo» dei loro versi, ma sulla durata della loro possibile verità, riaccesa ogni volta che una persona li incontra. Sgarbi dice che la poesia di Fo e dei cantanti è più popolare di quella di Luzi perché scritta in volgare e non in italiano aulico. No, Luzi, che meritava il Nobel più di Fo, scriveva nello stesso volgare, ma meglio. E cose più interessanti e scomode. Per questo non glielo han dato.
Non credo che a metà dell'800 gli italiani conoscessero a memoria i versi di Leopardi, scritti in aulica lingua petrarchesca, semmai molte canzoni di allora. Poi la scuola e la capacità di tramandare arte di valore ha offerto a tanti la poesia di Leopardi (o di Montale e Ungaretti). Ecco di cosa sono preoccupato, caro Vittorio, non del destino della poesia che fiorisce come sempre, ma dell'ignavia di chi la dovrebbe tramandare. Perché come dici, non possiamo vivere senza poesia.
Ma possono rifilarci dei surrogati. Certo, io trovo una certa «poesia» anche in un goal di Orsolini, figurati. Ma se voglio un buon bicchiere di vino spero non mi offrano dello spritz solo perché se ne trova di più in giro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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