Siamo a metà dell'anno, ma possiamo già dire qual è il caso editoriale del 2023. È Guerra di Louis-Ferdinand Céline, primo testo a essere pubblicato, l'anno scorso in Francia da Gallimard e un mese fa in Italia da Adelphi, fra quelli sottratti nel 1944 dall'abitazione dello scrittore e poi ricomparsi quasi sessant'anni dopo la sua morte. È il libro dell'anno per l'importanza dell'autore, per l'avventuroso e sorprendente ritrovamento del romanzo (che è una sorta di antefatto del Viaggio al termine della notte), per la forza del testo, per la violenza della scrittura, per la sua - in una parola - bellezza.
Nota a margine. Si tratta di pagine non rilette, solo abbozzate e mai più riprese in mano, senza correzioni né revisioni. Eppure.
Eppure Guerra ha messo d'accordo tutti, al di là dello stucchevole giochino «destra-sinistra», perché siamo di fronte al Céline ideologicamente anestetizzato, è il Céline della sanguinolenta macchina tritacarne della Prima guerra mondiale, non il Céline collabò, compromesso coi nazisti, o il Céline antisemita delle Bagatelles pour un massacre (che secondo molti è il suo testo stilisticamente migliore, ma che non potrebbe mai ricevere alcun tributo). Guerra è piaciuto moltissimo ai lettori, perché è entrato subito nella classifica dei libri più venduti in Italia e ci è rimasto per diverse settimane nella sezione della Narrativa straniera mentre nella settimana del 5-11 giugno è stato addirittura nono nella Top ten generale. E soprattutto ha conquistato la critica, trasversalmente, dal manifesto (che fece una grande anteprima al momento dell'uscita di Guerre in Francia) alla Verità. Lo ha elogiato Emanuele Trevi su «La Lettura», il célinologo Andrea Lombardi sul nostro Giornale, su Domani ne ha scritto Walter Siti (il quale parla del dono straordinario della scrittura posseduto da Céline), Giuseppe Culicchia sull'Huffington Post, lo specialista Ernesto Ferrero sul «Domenicale» del Sole 24 ore, Emmanuel Carrère ne ha parlato a lungo intervistato per il Corriere della sera da Stefano Montefiori. Antonio D'Orrico, dall'alto del suo pop-snobismo, ha dedicato a Guerra ben due puntate della sua «Pagella» su «La Lettura» (titolo: «Nessuno lo può giudicare»), mentre Ottavio Fatica, il traduttore italiano di Céline, su «Robinson» di Repubblica, a colloquio con Antonio Gnoli, una settimana fa, ha detto che «leggere Céline è come calarsi in un vulcano pronto a eruttare lava. La prima cosa da chiedersi è: ne uscirò vivo?». E ancora: «È stato lo scrittore tabù del Novecento. So che quando lo lessi la prima volta volevo scrivere come lui, anzi essere lui. C'è una tale qualità contagiosa nei suoi libri che ti spara il cervello». E potremmo continuare. Ma non serve.
L'ultima
indagine sugli indici di lettura dice che il 60% degli italiani non legge neppure un libro. Poi c'è un'élite che ne legge uno o più al mese. E un'ampia fascia che ne legge soltanto uno all'anno. Un consiglio. Che sia questo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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