La felce, il bambù e la lezione sul dolore

Da oggi in libreria La felce e il bambù per i tipi de L'ippocampo. Un racconto sulla paternità e l'importanza di vivere davvero

La felce, il bambù e la lezione sul dolore
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Un topolino muore e lascia in eredità due semi ai suoi due figli. Al primo ne dà uno di felce, al secondo di bambù. E la storia potrebbe finire così, con i piccoli che piantano i semini in ricordo del loro papà che non c’è più. Ma c’è un però, che ci obbliga a raccontare il resto della storia e a rifletterci un po’ su perché La felce e il bambù di Marie Tibi e Jéremy Pailler, in libreria da oggi per i tipi de L’ippocampo, è molto di più di un racconto per bambini. Ma, per capirlo, dobbiamo tornare ai topini.

La felce cresce in fretta, è rigogliosa, e il figlio maggiore non deve fare nulla se non godersi l’ombra di quella pianta che gli ricorda il suo papà. Il minore, dopo aver sofferto a lungo la perdita del genitore, si decide a piantare il seme di bambù. Ma non c’è nulla da fare. Quell’albero proprio non vuole uscire dalla terra. “Io non mi arrendo”, dice allora il piccolo e gracile topino mentre inizia a darsi da fare: “Giorno dopo giorno il poveretto continuava a versare secchi d’acqua sulla terra arida e, a forza di portare quei pesanti mastelli in bilico su una pertica, si era irrobustito. La pelle gli si era imbrunita e le spalle si erano fatte più possenti”. Tutti, nel villaggio, lo prendono in giro. Il bambù ha fatto la stessa fine del padre, è morto, e non c’è più nulla da fare. Ma il topino pronuncia le sue quattro parole: “Io non mi arrendo”. Passano gli anni, la felce si ingiallisce e secca, mentre il bambù timidamente esce dalla terra umida, di cui il topino si è preso cura. Ed eccolo crescere. Un metro, due metri, cinque metri. E fa ombra alla felce, proteggendola. “Solo perché non lo vediamo, non significa che non stia succedendo niente. L’importante è non arrendersi”, dice il topino. Il bambù ha ormai raggiunto i venti metri. È come una cattedrale gotica nel bosco. Tutti vengono a vedere quelle guglie verdi che si slanciano nel cielo come fossero mani in preghiera.

Una notte, di quelle dove si dorme profondamente, il papà appare ai topini e al più piccolo dice: “Tutto il tempo che hai trascorso a lottare è servito a far crescere le radici che hanno dato forza al tuo bambù”. Perché lottare è non cedere mai, anche quando tutto sembra perduto. “Io non mi arrendo”, dice il topino. Che riecheggia il McCarthy de La strada: “Ce la caveremo, vero, papà? – Sì. Ce la caveremo. – E non succederà niente di male? – Esatto. – Perché noi portiamo il fuoco. – Sì. Perché noi portiamo il fuoco”. Che è quello che ogni figlio chiede al padre: la certezza di farcela davanti a ogni avvenimento della vita. Quelli belli, certamente. Ma anche quelli brutti. Come insegna papà topo: “Non rimpiangete un solo giorno della vostra vita. I giorni buoni vi rendono felici, quelli brutti vi donano esperienza. Nella vita sono preziosi gli uni e gli altri”. Prendere tutto, trattenere ciò che è buono. E tutto lo è, se lo si è in grado di accettare (e non sempre è facile farlo). Ma questo è il contributo che può dare un padre al figlio: un’eredità. Che non è solo, anzi non è per niente, economica. Ma è prima di tutto umana e spirituale. È la preghiera che Ettore rivolge agli dei prima di andare a morire per mano di Achille: “Zeus, e voi numi tutti, fate che cresca questo / mio figlio, così come io sono, distinto tra i Teucri, / così gagliardo di forze, e regni su Ilio sovrano; / e un giorno dica qualcuno: ‘È molto più forte del padre!’”. È questa l’essenza della paternità, che passa dalla giustizia, come insegna il topino, che non significa dare a tutti lo stesso, ma a ciascuno il suo, come dicevano gli antichi romani (Unicuique suum).

Ed è per questo che al grande il papà dà la felce e al piccolo il bambù: perché il secondo aveva bisogno di rafforzarsi. Di farsi le ossa. In una parola: di crescere. E si cresce passando soprattutto dalle difficoltà. È la grande lezione dei topini. Dei padri. E de La felce e il bambù.

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