Viaggio tra le città invisibili, tra storia e futuro

Dalla misteriosa e sotterranea Derinkuyu, in Turchia, che si sviluppa a 85 metri di profondità, al villaggio di Ko Panyi, in Thailandia, fino a Oxagon, la città galleggiante del futuro progettata per sfruttare i trasporti marittimi che attraversano il canale di Suez

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Immaginare la città del futuro con lo sguardo alla metropoli italiana che, più di altre, incarna il dinamismo delle trasformazioni urbane. Nell’ambito delle celebrazioni per il proprio cinquantenario, il Giornale continua il suo viaggio itinerante lungo l’Italia che produce, investe e sogna in grande.

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Ci sono città invisibili, per riprendere un titolo bellissimo di Italo Calvino. Città che, in un modo o nell’altro, ingannano l’occhio e la mente, hanno un’urbanistica che sfugge a qualsiasi inquadramento. Possono essere antiche e moderne, tecnologiche o primitive, infernali o angeliche a seconda di come le si guardi. Partiamo da una città veramente pensata per essere invisibile, così nascosta da essere a lungo dimenticata. La misteriosa città sotterranea di Derinkuyu nell'Anatolia centrale, in Turchia, è un gigantesco dedalo sottoterra: si sviluppa per 85 metri di profondità, su otto livelli discendenti. Poteva ospitare, anche se per brevi periodi, fino a un massimo di 20mila persone. Situata nella provincia di Nevşehir, in Cappadocia, è antichissima. Il nucleo primordiale dell’abitato risale all’VIII-VII secolo a.C. ma il centro raggiunse la sua maggiore espansione nell’Alto Medioevo, sotto il dominio bizantino, tra il VII e l’XI secolo dopo Cristo. Il complesso, riscoperto per caso nel 1963, venne utilizzato per millenni per nascondersi durante le guerre e le invasioni. La vita per salvarsi scende nel pozzo.

Ma sono tante le città scavate invisibili per definizione. Una delle più famose è Coober Pedy, una cittadina di circa 1.600 abitanti nello stato dell'Australia Meridionale e situata in un'area desertica a circa 850 chilometri nord di Adelaide. Coober Pedy è una città di luce, lì si estrae l’opale, preziosissima e bellissima. Eppure i suoi abitanti vivono per la maggior parte sottoterra per sfuggire al calore del giorno e al freddo della notte. Sono pochissime le strutture in superficie e anche i musei dedicati all’opale sono sotterranei. Del resto nel deserto le temperature oscillano terribilmente e i venti costanti rendono la vita quasi impossibile. Insomma, un posto a metà tra la Hobbitville di Frodo e la Moria dei Nani del “Signore degli anelli”. Un non luogo in cui il non apparire fa rima con una bellezza invisibile.

Ma anche l’Italia ha una sua città invisibile anche se un po’ più settaria. La Federazione di Damanhur, per lo più menzionata semplicemente come Damanhur, è una comunità situata a Vidracco in Piemonte, a circa 50 km a nord di Torino, nella Valchiusella, dove venne fondata nel 1979 da Oberto Airaudi, che però i damanhuriani chiamano Falco Tarassaco. Una sorta di Città stato, anche senza riconoscimento legale, e una propria moneta, il credito. E con la sua bella struttura invisibile. E non solo in senso strettamente spirituale. Il luogo più importante per la comunità è Il Tempio dell'Umanità è una grande costruzione ipogea scavata a mano nella roccia dai membri delle comunità, dedicata al Divino contenuto nell'uomo. Ovviamente in violazione a un discreto numero di leggi e prassi. La costruzione è articolata in sette sale principali. Esse rappresentano simbolicamente le stanze interiori di ogni essere umano; così come camminare attraverso le sale e i corridoi che lo compongono corrisponde metaforicamente, negli intenti dei costruttori, a un profondo viaggio all'interno di sé. A ogni particolare è stato attribuito dai costruttori un significato: i colori, le misure, ogni dettaglio, seguono un preciso codice di forme e proporzioni; ogni sala ha la sua specifica risonanza e un proprio suono.

E se non esistono le città volanti, come la Laputa inventata da quel genio calviniano del fumetto che è Hayao Miyazaki, esistono un sacco di città galleggianti. Basti pensare al villaggio di Ko Panyi in Thailandia, fondato alla fine del XVIII secolo da un pescatore nomade giavanese. In quell’epoca la legge limitava la proprietà della terra esclusivamente alle persone di origine tailandese. Data questa restrizione, l'insediamento si sviluppò, per la maggior parte, su palafitte realizzate all'interno della protezione della baia di quest’isola, che offriva un facile accesso al mare ai pescatori. Con l'aumento della ricchezza della comunità, dovuto alla crescente industria del turismo in Thailandia, l'acquisto di terreni sull'isola stessa divenne legale e furono costruite le prime strutture significative sulla terraferma, una moschea e un pozzo d'acqua dolce. Ma la parte “galleggiante“ rimane la vera attrazione del luogo. Che comunque resta un regno dei pescatori. Ma questo modello antico di colonizzazione delle acque potrebbe anche essere un modello del futuro. I progetti per città galleggianti o costruite comunque in mare aperto si moltiplicano.

C’è, per dire, uno studio danese, elaborato da degli specialisti in architettura marittima. Chiamato Land on Water, il progetto consiste in contenitori modulari che possono essere riempiti con vari elementi di galleggiamento. Realizzati in plastica rinforzata riciclata, questi moduli – una volta richiusi similmente agli elementi di un mobile flat-pack – possono essere facilmente trasportati in tutto il mondo e assemblati in diverse configurazioni per adattarsi a una vasta gamma di tipi di edifici.

Ma c’è chi va oltre. In Arabia Saudita è stato presento il progetto per costruzione di un nuovo porto e hub logistico.

Oxagon, questo il nome del progetto sarebbe, una volta costruito, sarebbe la struttura galleggiante più grande del mondo e destinata a diventare una vera e propria città progettata per sfruttare i trasporti marittimi che attraversano il Canale di Suez. Nemmeno la fantasia di Calvino si era spinta a tanto.

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