«Rubens non è per nulla contemporaneo. Questo è un bene, per lui e per noi». Alejandro Vergara, conservatore tra i più stimati del Museo del Prado di Madrid, dove è senior curator per la pittura fiamminga e del Nord Europa, lo afferma mentre passeggiamo nella stupefacente galleria che si trova al primo piano del museo dove, uno dopo l'altro, si susseguono alcuni dei capolavori assoluti di Pieter Paul Rubens (1577-1640). Uno per tutti: Le Grazie, non troppo distanti da Las Meninas di Velázquez che mette tutti in coda in stile Gioconda (ma qui niente foto ricordo: questa è la politica del Prado, tre milioni di visitatori annui e neanche un selfie da condividere sui social).
Nella galleria centrale e in un'altra sala del secondo piano del museo sono custoditi 124 capolavori di Rubens: il Prado ha la maggior collezione al mondo dell'artista fiammingo perché, dice con disarmante semplicità Vergara, «Filippo IV ne era ossessionato». Non era il solo: Pieter Paul Rubens, poliglotta che amava il greco e il latino e più di tutto esprimersi per iscritto in italiano, era bello, anzi bellissimo. Gran viaggiatore («J'estime tout le monde pour ma patrie», diceva), era colto e abile a contenere una sua personalità un po' stravagante, tanto che in età matura gli vennero affidati incarichi diplomatici tra i più delicati: negoziò nel 1624 la pace tra Anversa e Maurizio d'Orange, qualche anno dopo il re di Spagna lo volle come ambasciatore di corte e Maria de' Medici lo scelse per farsi accompagnare in esilio in Belgio. In un'Europa massacrata dalle divisioni e da trent'anni di guerre, con pratico piglio fiammingo e rigore etico quasi calvinista, pur essendo un cattolico ortodosso, Rubens credeva nel soft power dell'arte e nella capacità, attraverso la rilettura dell'antico, di trovare un fertile terreno comune su cui costruire una nuova età dell'oro, una civiltà di pace.
Tra qualche settimana Palazzo Te e Palazzo Ducale di Mantova e Galleria Borghese di Roma ci racconteranno tutto questo nell'ampio progetto «Rubens! La nascita di una pittura europea» (dal 7 ottobre al 18 febbraio), scandito in tre eventi espositivi dedicati al maestro di origine fiamminga che più di ogni altro gettò le basi per una comune cultura visiva europea. Dal Prado arrivano prestiti importanti, come Achille scoperto tra le figlie di Licomede, un olio su tavola del 1630, e un altro museo di Madrid, il raffinato Thyssen-Bornemisza, presta l'opera-simbolo della mostra, il San Michele espelle Satana e gli angeli ribelli del 1622. Prima che lo imballassero per giungere in Italia, lo abbiamo osservato da vicino insieme a Raffaella Morselli, appassionata curatrice della mostra «Rubens a Palazzo Te. Pittura, trasformazione e libertà» che apre questa originale operazione culturale: l'opera - da notare i sublimi sfondi disegnati, i fulmini pagani di San Michele - sarà posizionata nella Sala degli Imperatori di Palazzo Te, in perfetto dialogo con gli affreschi di Giulio Romano, e il confronto procede di sala in sala, con altri dipinti di Rubens e dei suoi migliori allievi (il maestro aveva infatti ad Anversa un atelier che potremmo definire proto-industriale: produceva tanto e per tutte le più importanti corti d'Europa).
È a Mantova che si forma la «banca-immagini di Rubens, a lui utile per tutti gli anni a venire», spiega Stefano Baia Curioni, direttore Fondazione Palazzo Te che, evento eccezionale, per la mostra ha coinvolto tutte le sale dell'edificio, riclimatizzate a dovere. «Il colto umanista universale Pieter Paul Rubens - spiega Raffaella Morselli - con la testa in fermento per le letture greche e latine apprese in patria, ed esaltato per i tanti Tiziano e Tintoretto ammirati nella Serenissima, arriva nella città dei Gonzaga nella calda estate del 1600. È una vertigine. Mantegna, Giulio Romano, Correggio, Tiziano, la scultura antica delle collezioni di Isabella: Rubens non si leverà più dalla testa tutto quel mondo».
Amatissimo dai Gonzaga (per loro realizza anche la Pala della Santissima Trinità cui è dedicata la mostra a Palazzo Ducale), Rubens lavora tra un'ambasceria e l'altra a Genova e poi a Roma, da cui scappa nel 1608 per andare ad Anversa dalla madre morente: «Nell'Urbe Rubens incendia la scena, anima l'antico, prepara il Barocco», sintetizza Francesca Cappelletti, direttrice della Galleria Borghese che dal 14 novembre presenta nelle sue sale «Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma», un viaggio tra opere seicentesche, Bernini incluso, e i quadri e disegni di arte antica che Rubens realizzò in Italia, sfruttandoli come modelli per i decenni a venire.
Domandarsi allora se Rubens sia fiammingo o italiano ha poco senso: Rubens è uomo universale, è l'inventore di un nuovo linguaggio visivo
europeo che si fonda sull'ammirazione per l'antico e la fede cristiana. Il suo sogno di un'Europa tollerante, pluralista e in pace ci appare oggi, grattando sotto quella pittura così carica e debordante, più attuale che mai.
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