Mediterraneo - A bordo della portaerei Garibaldi L'elicottero della Marina vola per un tratto a pelo d'acqua nelle due ore di trasferimento che servono a raggiungere la portaerei Garibaldi, in prima linea nel mar Mediterraneo. La nave italiana è l'ammiraglia della flotta Nato schierata di fronte alle coste libiche per fiaccare la resistenza del colonnello Gheddafi.
Dal lungo ponte della portaerei decollano come schegge i caccia bombardieri che vanno a colpire gli obiettivi in Libia. «Attacchiamo bersagli prettamente militari e lontani dai centri abitati, per difendere i civili nel rispetto della risoluzione delle Nazioni Unite», spiega un pilota con la visiera del casco abbassata. Il suo nome di battaglia è Mango. Quello vero non può dirlo, nè farsi fotografare in faccia, per timore di ritorsioni dei fan libici di Gheddafi che ancora si annidano in Italia. Gli Av-8 della Marina decollano in coppia, uno dopo l'altro, spingendo i motori a manetta e facendo tremare la nave. Sotto la pancia hanno bombe a guida laser e gps da 250 e 500 chili. «Ci riforniamo in volo e colpiamo l'obiettivo da seimila metri» spiega il pilota, che si è addestrato con l'aviazione dei marines negli Stati Uniti.
In tre mesi di guerra la Nato ha lanciato quasi quattromila attacchi aerei contro il regime libico. I piloti italiani hanno compiuto 350 sortite. I caccia bombardieri del Garibaldi sono impegnati anche per la sorveglianza aerea e la ricognizione sul terreno con l'obiettivo di scovare le forze ancora fedeli al colonnello, che si mimetizzano fra i civili o facendo finta di essere ribelli. Gli attacchi al suolo vengono chiamati in gergo strike e inceneriscono bunker, depositi di munizioni o pezzi di artiglieria che martellano le città assediate come Misurata, la Stalingrado libica. Tutti obiettivi che devono trovarsi rigorosamente all'esterno dei centri abitati per evitare di colpire per sbaglio i civili. «Sono io a tirare fuori il cartellino rosso e a mettere il veto all'impiego dei nostri piloti per qualsiasi ordine di missione che non rispetta i limiti d'impiego imposti da Roma. In Libia difendiamo i civili, non li ammazziamo» sottolinea l'ammiraglio Filippo Maria Foffi. Pizzetto e capelli bianchi è imbarcato sulla portaerei Garibaldi come comandante della flotta Nato, che garantisce l'embargo sul mare.
Oltre a 19 navi non mancano i sommergibili, l'arma occulta per eccellenza, che a ridosso delle coste libiche svolgono le missioni più rischiose. Da poco è in zona d'operazioni anche un sommergibile italiano, ma a bordo della portaerei le bocche sono cucite sulla sua attività. Solitamente dalle unità sottomarine sbarcano i corpi speciali per infiltrarsi in territorio libico. Via periscopio si possono osservare da vicino le postazioni sulla costa da Marsa al Brega, dove corre la prima linea, fino a Misurata ed al confine con la Tunisia. Non solo: i sommergibili americani sono in grado di lanciare piccoli e silenziosi velivoli senza pilota, che dall'alto filmano le postazioni di Gheddafi.
Sul Garibaldi sono imbarcati anche i fanti di marina del reggimento San Marco, addestrati per il recupero dietro le linee di piloti abbattuti o altri militari e civili. Alcuni di loro non amano farsi fotografare, per motivi di sicurezza o per non preoccupare i familiari a casa. Quando si avvicinano i giornalisti si tolgono i nomi dalle divise. Li comanda il capitano di corvetta Mario Bertero, 40 anni, di origine piemontese, che però è stato attratto dalla Marina. Occhi azzurri e mimetica chiazzata, ha una famiglia con due figli che lo aspetta a casa. Il più grande, di 5 anni, gli manda i disegni con il faccione di papà sopra una nave. E adesso che comincia scrivere ha scritto via computer al genitore in divisa due parole: «Torna presto».
Sul Garibaldi sono imbarcati in 800 e non mancano 62 donne, comprese alcune mamme. Il barese Vincenzo De Giosa, 33 anni, invece diventerà padre: «Mia moglie dovrebbe partorire ai primi di agosto, ma non mi sono perso un giorno di missione in questi mesi. Spero solo di vedere nascere Giada».
Nel grande ventre della portaerei c'è pure un cappellano militare, don Vincenzo Caiazzo, che celebra la messa con un tricolore della Marina alle spalle. A bordo le possibilità di svago sono poche a parte la palestra ricavata in un angolo della nave. Sotto coperta la portaerei è una piccola cittadella e lungo i corridoi con i portelloni tagliafuoco ci sono i telefoni per chiamare in Italia. In mezzo al mare, però, le polemiche di casa nostra sull'intervento contro Gheddafi fanno male.
Al largo della Libia la guerra sembra lontana, ma le minacce sono inaspettate. Oltre alle mine è stato intercettato un gommone con mille chilogrammi di esplosivo. I pretoriani di Gheddafi ci mettono sopra anche dei manichini per organizzare meglio la trappola. Un sistema simile a quello usato dai talebani in Afghanistan. A fianco degli attentatori suicidi al volante delle macchine minate piazzano dei fantocci con il burqa, per far sembrare che si tratti di un'allegra famigliola.
«A Gheddafi non resta che utilizzare pescherecci, gommoni o
barchini, che sembrano innocui o bisognosi di soccorso - spiega l'ammiraglio Foffi -. A bordo, però, possono nascondersi dei sistemi d'arma per abbattere gli elicotteri oppure qualcuno armato di un lanciarazzi».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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