Possibile che l'anello di congiunzione tra due pittori sia un libro? Di norma no, soprattutto se il libro è ben più moderno dei dipinti. Eppure «Il tamburo di latta» - romanzo che è valso il Nobel per la letteratura a Gunter Grass - è la perfetta crasi tra l'espressionismo di denuncia anti-borghese di Grosz e l'allegoria surreale e un po' freak di Hieronymus Bosch.
Pesante e divertente, pazzo e grottesco, il ponderoso libro del romanziere tedesco ha ormai più di mezzo secolo (scritto nel 1959 e pubblicato in Italia da Feltrinelli) e continua a dividere. Chi ne critica la teutonica prolissità, chi invece si lascia trascinare dalla rivisitazione in chiave circense del drammatico Novecento tedesco vissuto nei panni - ristretti - del nanetto Oskar Matzerath, nato nella città di Danzica ma mai cresciuto per ribellione contro il mondo e la mediocrità della sua famiglia. A tre anni, Oskar smette di crescere e decide di comunicare solo con un tamburo di latta e un urlo che spacca i vetri. Maturo e disincantato, acido e "diverso", tra un amplesso con la governante e una fidanzata altrettanto «mignon», Oskar attraversa il declino della Germania tra bombe e svastiche, fino al triste, allegorico finale.
C'è chi lo definisce più importante che bello, chi si lascia vincere dai pregiudizi contro l'autore per demolire il romanzo (Grass recentemente ha ammesso di essere stato volontario nelle SS naziste).
Ma c'è anche chi scorge nella densità della scrittura e nella complessa trama di simboli che sottende alle quasi 600 pagine i tratti somatici inequivocabili del capolavoro, del libro in cui si specchiano un mondo, un'epoca e un popolo. Specchio deformante, concavo, sfregiato, comunque scintillante.Carnevalesco
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