È solo di qualche anno più giovane dell'Unità d'Italia di cui nel 2011 si festeggia il 150esimo anniversario, questo libretto infinitamente cattivo e senza un briciolo di spensieratezza. Scritto nel 1864 da Fedor Dostoevskji e pubblicato in Italia praticamente da ogni casa editrice sana da Mondadori a Rizzoli, da Einaudi a Garzanti, «Memorie dal sottosuolo» - come spiega il protagonista nell'incipit - è un romanzo «malato». Bilioso, farcito di un'invidia atavica nei confronti di chiunque abbia fatto fortuna o anche solo sia felice per caso o per necessità, il protagonista si sfoga in un monologo che diventa presto simbolo icastico della misantropia umana universale. Ottocento, Novecento, Duemila: l'astio del sottosuolo per il consorzio umano che esclude e fila dritto verso un progresso sragionato non ha tempo.
La forza di questa opera - al di là della sempre magnifica ed efficace resa dei rapporti umani che contraddistingue tutto Dostoevskji - è l'impeto. La voglia di vivere del protagonista è dirompente, nonostante abbia davanti un segno negativo. L'autodistruzione diventa un obiettivo, la solitudine un valore, la vendetta un ideale. Abietto e disgustoso, meschino e superbo, il protagonista diventa personificazione di un pregiudizio: l'intelligenza e la lettura rendono difficile il percorso verso la felicità. Le ombre dell'autocommiserazione e delle paranoie gettano un buio insondabile fatto di crisi e depressioni, un male tutt'altro che confinabile alla Pietroburgo del XIX secolo.
Quindi ricapitolando sono due i tipi di lettori che più possono godere di questa piccola gemma oscura: lettori talmente felici da non venire nemmeno schizzati dalla negatività della «neve fradicia» in cui tramesta Dostoevskji, oppure lettori ciclotimici e lunatici, che conoscono quella tremenda voglia di rimanere soli e digrignano i denti se qualcuno si fa i fatti loro. Astenersi mediocri, sfumati e perditempo.
Drastico
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