La pittura di Antonio Ligabue è una proiezione metaforica del mondo nel suo stato di ebollizione, di violenza implicita nella forza. Volpe, tigre, leone, leopardo, serpente, grande ragno, gorilla e, talvolta quieto talvolta minaccioso, anche Ligabue stesso, animale fra gli animali. Gli animali che vede nella foresta che si immagina sotto il Po sono simboli di forza, di energia, emblemi di un desiderio di libertà, di riscatto. Ligabue, uomo umiliato ed emarginato, come pittore si afferma e vince attraverso la potenza gloriosa dell'animale. La tigre domina la foresta, la sua aggressività è vincente, ma la sua vittoria è pericolo, è la dimensione bellicosa dell'umanità.
Ligabue parla di sé, definisce il suo mondo, visto e immaginato, e comunque reale. E se parla di sé stesso, non parla con sé stesso perché comunque non deve comunicarsi niente. Non deve come l'intimista Giorgio Morandi, fare autoanalisi, non deve manifestare variazioni sentimentali e psicologiche. In alcuni autoritratti il suo conflitto sembra risolto, ed egli mostra sicurezza e anche autorevolezza. È altrettanto evidente che il pittore che dipinge un autoritratto indica un atteggiamento e definisce uno status, come è proprio di Antonello da Messina, di Rembrandt, di Van Gogh. E, come in questi celebri casi, di Ligabue resta una impostazione dell'autoritratto in cui gli occhi devono parlare, dalla rabbia alla supplica. E il pittore mostra abilità e furbizia.
Per quanto concerne la tecnica pittorica, infatti, Ligabue (Zurigo, 1899 - Gualtieri, 1965) non conosce mestiere, ed è estraneo a ogni accademia, ma esprime uno stile personalissimo e potentissimo. Apparentemente procede per approssimazione di segno e di colore. Il colore prevale sul segno, ed è quindi l'anima della pittura. L'anima di Ligabue è tormentata ed eccitata, e la pittura esprime questa condizione. La forza di Ligabue supera i confini dell'arte, e il confronto con un'opera di De Chirico e di Morandi lo mostra inequivocabilmente. Ligabue continua a essere sempre uno degli artisti italiani più popolari del Novecento. Ligabue è il domatore di una foresta, immaginata sulla riva del fiume, dove lui ha abitato per anni come un animale fra gli animali.
Carlo Vulpio ha voluto appassionatamente rievocarlo ne Il genio infelice: «Quando arriva qui, si chiama ancora Antonio Laccabue come il suo primo papà adottivo Bonfiglio Laccabue - anche lui emigrato in Svizzera, ma da Gualtieri -, dopo essersi chiamato Antonio Costa come la madre. Laccabue atterra sulle rive del Po come un alieno. È un alieno. Spaventato. Spaesato. Con una valigia di cartone piena di illustrazioni di animali ritagliate da qualche rivista e di disegni suoi. Abbassa lo sguardo quando gli altri lo osservano con curiosità come una bestia dello zoo, oppure è lui a trapassarli con i suoi occhi spiritati e fuori dalle orbite. Non capisce una parola di italiano, parla molto poco e soltanto il tedesco. Comprende subito che il suo nuovo mondo, nel cuore della pianura padana, più che le strade, le case, le osterie e le cascine di Gualtieri e di Guastalla saranno le golene e i boschi lungo il Po.
Il fiume diventa suo padre e sua madre, la sua donna e il suo amico fidato, la sua oasi e la sua giungla, in cui immagina di ritrovarsi di fronte le belve feroci che poi dipinge, ma che in realtà ha visto soltanto al circo e che per lui sono gli uomini, l'umanità che lo deride, lo provoca, lo maltratta, lo rifiuta».Ligabue è la forma della vita contro la finzione della forma. Dall'altra parte del fiume, stanno i pensieri, i concetti di Lucio Fontana. Gli ultimi animali contro i primi tagli.
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