«Non bisogna far piangere gli operai di Boulogne-Billancourt» diceva Jean-Paul Sartre per giustificare i suoi silenzi riguardo ai disastri del «socialismo reale»... Esistessero ancora, il filosofo e la classe operaia, avrebbero di che rallegrare il cuore e la mente di fronte alla mostra che nel locale museo intitolato agli Anni Trenta celebra il volto, il corpo e l'anima di Brigitte Bardot... Lungo un chilometro quadrato d'esposizione si allineano i cimeli che contribuirono a fare dell'attrice il simbolo stesso della Francia: il busto scolpito da Aslan come moderna Marianne, incarnazione della Repubblica, le foto di Robert Doisneau, Richard Avedon, Sam Levin che ne catturavano il fascino infantile e carnale, i multipli di Warhol, il ritratto di Van Dongen, gli abiti metallici di Paco Rabanne, le ballerine Repetto tagliate su misura per i suoi alluci ai tempi di Et Dieu... créa la femme, le affiches di Sénéquier, il caffè di Saint-Tropez, che grazie a lei si assicurò fama e ricchezza, i set che proprio negli stabilimenti cinematografici di questa cittadina della banlieue la videro diretta da grandi registi, René Clair per Le grandi manovre, Julien Duvivier per Femmina e La sposa troppo bella... E ancora: lettere, gioielli, automobili, abiti di scena, canzoni e colonne sonore per un omaggio che abbina il suo nome a un'epoca e lo fa all'insegna della spensieratezza (Brigitte Bardot, les années «insouciance»). Per l'occasione, «Paris Match» esce con un'edizione speciale tirata a un milione di copie, «Beaux Arts Magazine» con un omaggio da altre centomila, Henri-Jean Servat, il curatore della mostra, con un libro, Brigitte Bardot, la légende (Editions Hors Collection) intriso di nobile nostalgia, mentre il regista Joan Sfarr è alle prese con un film in cui Laetitia Casta ha l'ingrato compito di impersonarla. «Brigitte Bardot sta al cinema francese come Dostoevskij al romanzo russo» ha sintetizzato il settimanale di moda «Elle»...
L'affermazione può apparire azzardata, ma la rivista in questione se la può permettere. Fu proprio un suo numero speciale del maggio 1950, con la quindicenne Brigitte in veste di modella-mascotte, a suscitare l'interesse del regista Marc Allégret. Lì per lì, un consiglio di famiglia optò per non dar seguito alla cosa. Borghesi bene, i Bardot padre e madre vedevano male il mondo del cinema, pericoloso, peccaminoso. Fu il nonno materno a vincere le resistenze: «Se pensate che questa ragazzina sarà una puttana, accadrà con o senza il cinema; se invece pensate di no, non sarà il cinema a cambiarla. Lasciamola libera di scegliere, non abbiamo il diritto di decidere il suo destino»... L'assistente di Allégret si chiamava Roger Vadim: tre anni dopo sarebbe stato suo marito e di lì a poco l'artefice del suo mito.
In vent'anni sì e no di carriera, la Bardot girò nemmeno cinquanta film e di questi se ne salvano appena una mezza dozzina. Eppure in quell'arco di tempo lei fu la Francia sullo schermo e da Autant-Lara a Godard, da Malle a Clouzot, da Christian-Jaque a Duvivier ci si rese conto che con lei in scena non c'era posto per nient'altro.
Non era questione di pura e semplice bellezza, perché ci sono state e ci sono attrici più belle, e con più fascino; né di bravura, perché quanto a recitazione la sua non brillò mai e quando accadde fu quasi per caso e come controvoglia. È che nessuna come lei è riuscita a incarnare il senso panico di un erotismo amorale e impudico, naturale e innocente. Era un qualcosa che aveva a che fare con la felicità e l'indolenza, una punta appena di malinconia, l'allegra sfrontatezza di chi si offre perché così le va, senza sadismi e senza masochismi. Che prendesse il sole senza costume sul terrazzo di una casa, che ballasse scalza su un tavolo, che si presentasse al proprio ricevimento di nozze in accappatoio a riempirsi un piatto di cibo per poi ritornarsene a letto, l'impressione che se ne aveva era quella di una divinità pagana per la quale fosse doveroso perdersi, senza colpa e senza espiazione se non per la sofferenza che il successivo abbandono avrebbe provocato.
Si dirà che era una immagine e non la realtà, e che l'insouciance, la spensieratezza di cui la mostra qui raccontata ne fa il simbolo per eccellenza, nasconde, come il tempo e la vita avrebbero dimostrato, una donna fragile, piena di ansie e di pulsioni suicide, a disagio con i sentimenti e il suo stesso corpo. Può darsi, ma in realtà l'una non esclude l'altra e in ogni pessimismo attivo si spalancano abissi di tragedia, albergano solitudini e pensieri neri, trova spazio l'insensatezza del vivere, la sua gratuità, il suo peso a volte insopportabile. La libertà si paga, e a caro prezzo: «Sono sempre stata una ribelle e sono sempre stata troppo lucida per poter essere mai stata felice».
Lo scandalo e il fascino della Bardot non derivavano dall'aver consapevolmente infranto dei tabù, quanto dalla naturalezza con cui li infrangeva, perché non la riguardavano, non erano un suo problema. Due immagini della mostra aiutano a spiegare meglio. La prima, tratta dal Disprezzo di Godard la vede sdraiata a prendere il sole sulla terrazza di villa Malaparte, vestita solo di un libro che le copre le natiche, la bellezza più indifesa e più inquietante del nostro Novecento. Immersa nella luce e nella natura a picco sugli scogli di Punta Massullo, la casa si rivelava per quello che è, un tempio pagano, e Brigitte la sua divinità. Nel film Michel Piccoli, sceneggiatore in crisi sentimentale e creativa, salita la scalinata a trapezio che porta alla sommità dell'edificio, si sedeva, cappello in testa, vestito di tutto punto, a fianco della passiva e nuda sacerdotessa. «Disturbo?» chiedeva. «No» era la risposta. Poi, sollevato il libro da quel tabernacolo profano, cominciava a leggere. Al mistero del potere femminile opponeva la sua sterilità d'intellettuale. «Beauty is difficult» dice un verso di Pound.
La seconda è uno scatto del 1965: bocconi su un divano, due rose rosse nei capelli e un braccialetto al polso come unici indumenti-ornamenti, è in piena luce nella penombra della stanza. Una principessa barbara, inerme eppure invincibile...
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