L'Occidente brucia nel falò delle sue vanità

Le "primavere arabe" hanno smascherato la debolezza della visione geopolitica del Nord (liberale) del mondo

L'Occidente brucia nel falò delle sue vanità

Negli anni Dieci del XXI secolo, ovvero il nostro, una serie di rivolte cominciarono a scuotere le fondamenta di quello che convenzionalmente si suole definire extra-occidente, dalla Tunisia alla Turchia, passando per l'Egitto, il Bahrain, lo Yemen, Hong Kong. A questo elenco, Vincent Bevins, l'autore di Se noi bruciamo (Einaudi, pagg. 354, euro 32, traduzione di Maddalena Ferrara) aggiunge l'esplodere, quasi per una forma di corto circuito, di repressioni in Libia e in Siria, che a loro volta provocarono interventi armati extranazionali con rovesciamenti di regime riusciti nel primo caso, falliti nel secondo. In sostanza, dieci anni di rivolte senza rivoluzione e al termine dei quali, sintetizzando un po' brutalmente, si potrebbe dire che si stava meglio quando si stava peggio, ovvero che ciò che è avvenuto dopo fa rimpiangere ciò che c'era stato prima. In Egitto sono arrivati i militari, in Bahrain l'Arabia Saudita, a Hong Kong Pechino, in Libia il tribalismo armato, in Turchia e in Siria un giro di vite e un ulteriore rinsaldamento del potere messo in discussione.

Poiché in politica il vuoto non esiste, osserva Bevins, e le cosiddette rivolte «spontanee», come già ammoniva Lenin, finiscono sempre con l'adottare l'ideologia dominante che è loro intorno, ovvero essere represse proprio per l'incapacità a strutturarsi come alternativa rivoluzionaria, viene da chiedersi quanto e come la loro copertura e il sostegno massmediologico offerti dal mondo occidentale abbiano influito in modo negativo sul loro esito. A questo proposito Bevins cita le parole di un manifestante egiziano ai tempi di piazza Tahrir: «A New York, a Parigi, se fai una rivolta orizzontale, senza leader e post-ideologica, e questa non funziona, dopo fai carriera nei media o all'università. Qui nel mondo reale, se una rivoluzione fallisce, tutti i tuoi amici vanno in prigione o finiscono ammazzati». Non a caso, del resto, l'espressione «primavere arabe» venne coniata da un politologo americano, sull'onda della «Primavera di Praga» della Cecoslovacchia sotto il comunismo e, più lontano nel tempo, delle «Primavere dei popoli» del 1848 in Europa. Peccato che nei casi in questione, climaticamente parlando e non solo, fosse inverno.

Detto in altri termini, la lettura di ciò che accadeva nel Sud del mondo usando le lenti a contatto del Nord liberale, industrializzato e interconnesso, non solo era superficiale e semplicistica, ma stava a indicare dietro di esse la preoccupante assenza di una visione geopolitica in grado di interpretare realmente ciò che stava avvenendo e di prefigurare ciò che sarebbe avvenuto; oppure più cinicamente, il mettere la sordina lì dove i propri interessi finivano per essere troppo direttamente minacciati. Sotto quest'ultimo aspetto, il caso Bahrain, la nazione insulare nel Golfo dell'Arabia, è esemplare. Paese a maggioranza sciita, ma governato da una monarchia sunnita che si appoggiava alla propria minoranza non concedendo alla maggioranza la piena cittadinanza, nel 2011, sull'onda di quanto stava avvenendo in Egitto, le manifestazioni di piazza nel decimo anniversario di un referendum costituzionale rimasto lettera morta videro sfilare tutti gli oppositori della monarchia assoluta, dalla sinistra sunnita ai laici agli sciiti. La protesta di Pearl Roundabout, «il posto più simile a piazza Tahrir», nota Bevins, finì su YouTube, ma tempo un mese i Paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Kuwait, entrarono militarmente nel Bahrain, arrestarono tutti gli oppositori e cancellarono la piazza sotto una colata di cemento.

In Occidente non protestò nessuno. Va ricordato che il Bahrain è la sede della Quinta flotta statunitense e «la partnership di Washington con l'Arabia Saudita era troppo importante per lasciare che i diritti umani e la democrazia si intromettessero. Si arrivò a un accordo: Washington avrebbe mantenuto il silenzio sul Bahrain in cambio dell'appoggio della Lega araba all'invasione della Libia». E così fu.

Il fatto nuovo di quelle rivolte fu la rete, ovvero quello che Alec Ross, il responsabile della politica digitale del Dipartimento di Stato di Hillary Clinton, definì in modo entusiasta quanto precipitoso «il Che Guevara del XXI secolo». La stessa Clinton, del resto, scrive Bevins, «era convinta che Internet avrebbe reso il mondo più simile agli Stati Uniti», senza rendersi conto, come avrebbe poi sperimentato sulla propria pelle nelle presidenziali perse contro Donald Trump, del suo esatto contrario, la disinformazione emozionale e artificiale che prende il posto dell'informazione oggettiva e verificabile. Più in generale, questo entusiasmo digitale faceva parte di una di quelle varianti, teologiche più che ideologiche, nate sull'onda della «fine della storia» teorizzata da Francis Fukuyama all'indomani della caduta del Muro di Berlino e della fine dell'impero sovietico, ovvero «la sostituzione dello storicismo marxista con lo storicismo liberale, la convinzione cioè che il telos - lo scopo - della storia sia palese. Tutto ciò non solo ha messo coloro che hanno resistito (...) dalla parte del torto, ma anche, in qualche modo, dalla parte del male». Il suo logico corollario è che qualsiasi passo falso, più o meno grave, possa verificarsi, va compreso perché comunque porta il mondo nella giusta direzione...

Che nel XXI secolo l'Occidente possa ancora illudersi di dettare la propria agenda al resto del mondo, fa anch'esso parte di quella visione faustiana, prometeica se si vuole e insieme escatologica, che l'ha accompagnato, in vario modo, dall'età moderna a oggi. Ma lasciando da parte quanto e come «il resto del mondo» sia intanto cambiato, è la contrazione dell'Occidente stesso a doverci preoccupare, come Emmanuel Todd mette bene in chiaro nel suo La sconfitta dell'Occidente (Fazi Editore, pagg. 354, euro 20, traduzione di Alessandro Ciappa e Michele Zurlo), un saggio che analizza in profondità ciò che nel suo libro Bevins aveva per forza di cose dovuto raccontare in superficie, le rivolte e non le rivoluzioni, il mercato globale e l'interconnessione, le guerre «in nome della pace»... Scrive Todd che questa contrazione contiene in sé un paradosso: tanto il «resto del mondo» è consapevole della riduzione del peso degli Stati Uniti, un po' come è avvenuto per l'impero britannico, tanto sono gli europei a ritenere l'America, e con essa la Nato, sempre più indispensabile. Questo perché «il sistema americano finisce per gravare sempre di più sui suoi protettorati originari, i quali rimangono le ultime basi del suo potere» e perché la crisi del Vecchio continente - declino demografico e delle strutture familiari, delocalizzazione industriale che porta con sé la distruzione di fabbriche, professioni, vite umane, scomparsa della religione e trionfo del nichilismo in ogni aspetto della vita sociale - ne sancisce l'incapacità a vedersi come un soggetto autonomo.

La crisi dell'Europa, nota inoltre Todd, porta in primo piano l'emergere di «due grandi categorie ideologiche e mentali, l'elitismo e il populismo. Le élite denunciano una deriva dei popoli verso le destre xenofobe, mentre i popoli sospettano le élite di voler sprofondare in un globalismo delirante. Se il popolo e l'élite non riescono più ad accordarsi per lavorare insieme, il concetto di democrazia rappresentativa perde ogni significato: si finisce con l'avere una élite che non vuole più rappresentare il popolo e un popolo che non è più rappresentato». Il problema è che fino a ieri l'ideale democratico includeva un avvicinamento delle classi sociali, ovvero una loro migliore condizione di vita, mentre «negli ultimi decenni abbiamo assistito, al contrario, a un aumento delle disuguaglianze (...). Questo fenomeno, associato al libero scambio, ha frantumato le classi tradizionali, ma anche peggiorato le condizioni materiali e l'accesso all'occupazione degli operai e delle stesse classi medie».

Ciò che drammaticamente emerge da entrambi i saggi, è la mediocrità, spesso e volentieri supponente e spavalda, di quella che dovrebbe essere la classe dirigente dell'Occidente. All'indomani della eliminazione truculenta di Gheddafi, la solita Clinton, parafrasando Cesare, disse in televisione: «Siamo venuti, abbiamo visto, è morto» e poi si mise a ridere.

«Preferiamo la pace o il condizionatore d'aria acceso?» disse Mario Draghi, sempre in televisione, a un giornalista che gli chiedeva delle sanzioni economiche contro la Russia, e poi gigioneggiò: «Lei cosa preferisce?». Dai dai, conta su/ Ah beh', Sì beh'/ Ho visto un Re...

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