Marinetti inedito

L'Ottocento sta per morire, Milano brucia e il prossimo padre del Futurismo racconta i giorni della valanga rivoluzionaria

Marinetti inedito

Milano sembrava in uno stato di animazione sospesa. Negozi chiusi, scuole chiuse fin dal mattino; lettere e missive non sono consegnate. Incontro uno squadrone di cavalleria sul ponte del Naviglio, con le spade sguainate, seguito da una truppa di carabinieri. Dopo via Senato, il viale si piega leggermente e si apre in Corso Venezia, grandioso, largo una sessantina di metri. Dalla piattaforma del tram, accanto al conducente, scorsi in lontananza un enorme formicolare in fondo alla strada. «Costruiscono una barricata» mi disse il vetturino, conducendo i suoi ronzini come se niente fosse. «Le consiglio di scendere, vogliono far deragliare il tram e metterlo di traverso per fermare la cavalleria». Risposi ingenuamente: «Perché non torna indietro?». Fece un gesto vago. Era d'accordo con la folla. Restai lo stesso per vedere.

Il tram attraversò lentamente un'ondata di curiosi, tra gli urli e la cadenza monotona, un po' triste, dell'inno dei lavoratori. A un tratto il tram ebbe uno scossone. Scesi di corsa. Staccarono i cavalli e allora l'enorme veicolo, sollevato dalle mani della folla, schizzò fuori dai binari e corse alla deriva, come una carcassa tra le chele di mille granchi. Stranamente, la costruzione della barricata procedeva con la massima serietà. Arrivarono altri omnibus e tram; staccavano i cavalli e poi li mettevano di traverso su tutta la larghezza della strada. Sbarrarono così Corso Venezia con due enormi barricate distanti un centinaio di metri una dall'altra, con in mezzo il magnifico palazzo Saporiti (giallo oro antico, con il primo piano ornato di colonne corinzie che sostengono un frontone coronato da statue). Una trave gigantesca maneggiata da energumeni paonazzi fu spinta a forza di braccia contro la porta del palazzo. Altri insorti, molto calmi, con l'aria di capirsi al volo, finiscono di piazzare le barricate. Sembra che stiano spostando i mobili per cambiare arredamento. Si chiede un parere sulla posizione di un soprammobile. «Sta meglio qui, no?». Di certo non erano al loro primo trasloco. Solo che la folla aveva dimenticato un piccolissimo particolare... le armi! Di fucili, neanche l'ombra! Pietre, bastoni, qualche pistola, tutto qui. Ma ecco un intermezzo grottesco: mi infilo in via Palestro, arrivo davanti alla Villa Reale. Un gruppo di ragazzini, armati di pietre e bastoni, galoppa verso l'inizio di Corso Venezia. Davanti a tutti, un ragazzo arruffato, a piedi nudi, agile, scatenato, col viso infantile, capelli biondi e occhi dolcemente ingenui... scuote sotto il muso dei cavalli due torce accese, gridando: «Mangiate, mangiate!». Ma il plotone si mise in marcia e i ragazzi si dispersero nei giardini, correndo all'impazzata sotto gli spari. Era il mese di maggio e, come ogni anno, all'entrata dei giardini c'era una fioraia vecchia e grassa, quella con lo scialle marrone, che dormicchiava tra i suoi gerani. Nel fuggi-fuggi disperato, i ragazzi si buttarono sui vasi, calpestando, ribaltando, spaccando tutto per filarsela tra gli alberi. E la vecchia, alzandosi a fatica, con aria meticolosa, diceva gesticolando: «Ma non vedete? Non potevate passare da quella parte, girandoci intorno, senza rovesciare i fiori!». Intanto sibilavano le pallottole...

Qualche minuto dopo, erano le 11, gli squilli mi attirarono verso Corso Venezia. Erano gli appelli militari. Mi rifugiai in un cortile, mentre fuori crepitavano i colpi di fucile. Da un'apertura vidi gli insorti entrare nel palazzo Saporiti dal portone sfondato, mentre altri si arrampicavano sul frontone e issavano una bandiera rossa. I fucili continuavano a crepitare sul selciato. Sporgendo la testa, vedevo i militari in ginocchio in fondo al Corso, minuscoli come soldatini di piombo. In quel momento, sulla terrazza di palazzo Saporiti uscì un colosso che sollevò di peso una statua enorme e la lanciò giù per la strada. Fracasso assordante, tre squilli, fucilata. Dopo di che filai via, rasente i muri per evitare le pallottole vaganti. Ritornai a casa per osservare il dramma dall'alto del mio balcone. Con il binocolo distinsi perfettamente una truppa di carabinieri che avanzava; poi una sosta improvvisa, una fucilata terribile e la piccola corte formata dalle due barricate diventò tutta bianca, deserta; il frontone di palazzo Saporiti fu costellato di teste umane. I carabinieri aprirono una trincea nella barricata sotto una pioggia di tegole e di pietre. Li vedevo benissimo, addossati a casa Morisetti, scaricare le pistole, con le braccia verso il cielo, contro il tetto del palazzo. Attraverso la breccia larga qualche metro, impassibili, a spada sguainata, due plotoni di cavalleria sfilarono sotto una valanga di tegole e si disposero davanti alla seconda barricata. Formarono due ranghi solidi e compatti. Ci fu uno squillo, una folgorazione di spade sulla linea degli elmetti e la colonna si mise in marcia con violenza. Si ingrossò rumorosamente, irta di spade sguainate e brandite, spazzando tutto il Corso. Quando passò sotto il mio balcone, a pochi passi dal ponte, un ragazzino si alzò e tirò un grosso sasso dritto sulla prima linea della cavalleria. Il capitano che galoppava davanti a tutti, con la spada alzata, fu sfiorato al viso e impallidì... Verso le quattro andai a Porta Vittoria, dove era stata eretta una gigantesca barricata punteggiata di bandiere rosse. Era sempre la stessa folla disordinata, disarmata e senza capi che abbandonava la posizione al primo colpo d'arma da fuoco. Ma verso sera la violenza dei ribelli aumentò. Disarcionarono un cavaliere. Fischiarono gli ufficiali. Evidentemente erano in attesa di ordini: i cannoni tacevano malgrado la violenza della folla. Due vetture furono incendiate come falò alle due estremità della barricata. Allora le truppe aprirono il fuoco. Sul corso di Porta Romana, mentre tornavo a casa, vidi i ragazzini dare fuoco a un tram con la stoppa inzuppata di petrolio, poi lo rimisero sui binari e lo lanciarono a folle velocità. Un ragazzo cencioso ma tutto agghindato di riflessi e scintille faceva da conducente, in piedi sulla piattaforma fiammeggiante, con una mano sul freno, tra pennacchi di fuoco. Verso Porta Ticinese la battaglia durò tutto il giorno, a quanto sembra. Una casa fu incendiata. Un orefice difese a colpi di pistola il suo negozio che stavano cercando di svaligiare. All'angolo tra via Palermo e via Solferino escogitarono un formidabile sistema difensivo composto da quattro barricate disposte a quadrato. Una cittadella! Ci vollero uno squadrone di cavalleria, un battaglione di bersaglieri e una compagnia di artiglieri a piedi per conquistarla. Verso sera, via Solferino fu tutta impestata dai barili delle fognature con cui la folla aveva costruito le barricate e che erano stati sventrati dalle fucilate. La battaglia sui tetti durò fino alle 6. Su una casa molto alta si vedevano file di ragazzi che si passavano le tegole di mano in mano (come i secchi per spegnere un incendio), fino all'ultimo, che le accatastava ai piedi di un ragazzo più forte: il lanciatore! Un po' più in là, un uomo, tranquillamente seduto, metodico, si sforzava di svellere un camino per lanciarlo contro la truppa. Sul tetto di fronte, un capitano dava ordine ai soldati di sparare. Il giovane si nascose un momento dietro a un muro, poi, mentre lo prendevano di mira, sembrò pentirsi e ricominciò da capo. Una pallottola lo inchiodò al camino. Al crepuscolo si cominciò a respirare. I borghesi fuoriuscirono timidamente dalle loro case in cerca di notizie. Lo stato di assedio sospendeva ogni cosa, affari, culti, udienze giudiziarie, scuole, commerci. I redattori del Secolo e dell'Italia del Popolo erano stati arrestati.

Domenica 8 maggio uscii, tra i rombi dei cannoni che venivano dalle parti di Porta Ticinese, verso le 10. Verso le 11 furono tirati quattro colpi di cannone da piazza Sant'Eustorgio, che spazzarono tutta la via. Verso le 3 del pomeriggio, lo scrittore E.A. Butti mi dice che tutte le associazioni, i sindacati, i circoli operai radicali, repubblicani e socialisti sono stati disciolti.

Prendiamo una vettura e andiamo verso Porta Ticinese. Rari negozi riaprivano paurosi una persiana qua e là. Lungo il Naviglio, i parapetti erano stati divelti, i lampioni rovesciati, le inferriate dei giardini contorte, annodate, aggrovigliate. Sembrava che un esercito di giganti avesse saccheggiato, masticato, calpestato il quartiere. Sul ponte di Porta Vittoria, io e il mio amico facciamo una tacita scommessa. Ci gridano di non andare avanti, perché dal fondo di una stradina in basso i tiratori sorvegliano il ponte a colpi di fucile. Passiamo lo stesso. C'erano altri ragazzi che fischiavano i soldati e intanto correvano sotto le fucilate. Una vettura si fermò tra un assembramento di curiosi. A bordo c'era un signore decrepito e ben pasciuto che sembrava ignorare completamente quello che stava succedendo. Pallido come un cadavere, terrorizzato dalla folla che lo circondava, sembrava sordo o moribondo. Una serie di colpi di fucile scorticò violentemente i muri sopra le nostre teste e ci fece scappare. Sui bastioni di Porta Venezia vedemmo i cacciatori delle Alpi in fila indiana, sotto gli alberi, martellare il parapetto con il calcio dei fucili e gridare verso le case di fronte, con la mano davanti alla bocca a mo' di altoparlante: «Ritiratevi! Ritiratevi! Chiudete le porte e le persiane!».

Mi avvicinai al parapetto e vidi in lontananza quattro cannoni piazzati all'incrocio, rivolti verso i quattro viali divergenti. Al calar della notte, sotto i portici incrociammo un tizio: mostrava ai passanti dei cervelli umani che teneva nell'incavo del cappello, diceva: «Guardate che ne hanno fatto del povero popolo».

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