Anche il grande e caro Mario Rigoni Stern è uscito di pista e al fatale traguardo lo attendevo ormai da un paio di mesi. La notizia lavevo appresa a Trento, alla cerimonia del premio Itas per i libri di montagna, dove da anni lui presiedeva la giuria. Non cera, e purtroppo la sua assenza era giustificata.
Avevamo da più di mezzo secolo alcune forti comunanze: lamore per la neve, la storia bellica, i dialetti delle nostre terre, lo stesso anno di nascita che ci impose dolori e speranze nella guerra. Lui nel gelo della Russia, io nel deserto africano. Ne parlammo più volte, soprattutto prima delluscita del suo Il sergente nella neve.
Sapeva scrivere, ma la sua grandezza, se mi è consentito, gli veniva dal suo eccezionale dialogo con la natura nelle sue molteplici ricchezze, animali, piante, fiori, unitamente alla forza dei silenzi e delle grandi solitudini. Una mattina, camminando fra i pini di Asiago, cantavano molti uccelli e si divertì a farmene indovinare qualcuno. «Ti dò appena sei - mi disse dopo limprovvisato esame -, ma non ti boccio, perché la tua Trento non arriva nemmeno a 200 metri sul mare».
Eravamo diversi nei tanti rapporti con la vita, lui fedelissimo alla moglie e alla famiglia, io forse più dedito a libertà goliardiche, lui calibrato anche nel godere i cibi e i buoni vini, io votato a qualche eccesso in più. Comunque ambedue soddisfatti - e ce lo ripetevamo sempre nei non frequentissimi incontri - di essere usciti dalla guerra e di essere ancora attivi, nonostante le nostre ottantasette primavere.
Un ultimo ricordo, secondo me simpatico e sicuramente unico, riguarda il 1978, quando ci trovammo ambedue contenti e soddisfatti finalisti del Premio Campiello, tra i riflessi dei canali e i voli dei colombi di Venezia. Avevo letto il suo libro, Storia di Tönle, singolare personaggio della sua terra alpina, che si sarebbe scontrato con il mio molto trentino Ride la luna.
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