L'ultimo Freddie Mercury che diventò una leggenda

Il libro di De Ponti racconta gli anni finali del leader dei Queen che non voleva essere "solo" una rockstar

L'ultimo Freddie Mercury  che diventò una leggenda

Londra. Sono in aereo, di ritorno da Londra, dove sono stato a vedere l'esterno di Garden Lodge, la casa di Freddie Mercury. Ho perfino mandato dei fiori a Mary Austin, l'ex fidanzata e amica di una vita di Freddie che ha ricevuto quasi tutta la sua eredità, sperando mi facesse entrare, ma niente. Le ho scritto che a marzo uscirà un mio ultimo romanzo, Volevo essere Freddie Mercury (con La Nave di Teseo, scritto con Giulia Bignami), dove rinnego perfino tutta la mia carriera di scrittore (le ragioni saranno spiegate nel romanzo, perché molti saranno stupiti che io sia passato da Proust a Freddie Mercury), ma sapendo già che chissà cosa gliene poteva fregare.

Molti di voi avranno visto il film Bohemian Rapsody, chi non conosceva i Queen lo ha apprezzato, Hollywood di certo lo ha premiato dandogli l'Oscar, ma i veri amanti dei Queen lo hanno disprezzato, e la ragione è una: Freddie Mercury. Quello che diceva «Non sarò una rockstar, diventerò una leggenda». A parte il personaggio fatto interpretare da Rami Malek come ombroso, antipatico e burbero, quando Freddie era tutt'altro, il film parla di una rockstar, non di una leggenda, e alla leggenda manca la parte finale, quella dal 1985 al 1991, proprio quella che lo ha reso una leggenda a tutti gli effetti.

Per questo il libro che ho letto in viaggio è quello di Roberto De Ponti, giornalista sportivo del Corriere della Sera, intitolato L'ultimo Freddie Mercury e edito da Sperling & Kupfler: era un libro che mancava. Per carità, nell'ultimo anno, in occasione del trentennale della morte, di libri ne sono usciti molti, tra cui quello del regista dei suoi video Rudi Dolezal (My friend Freddie, ancora senza editore italiano), perfino, in questo mese, uno dell'assistente Peter Freestone, per non contare le biografie più o meno ufficiali, ma nessuna si sofferma abbastanza sugli ultimi anni. Il libro di De Ponti, paradossalmente, racconta di più di coloro che hanno conosciuto la leggenda, perché separa, o cerca di farlo, le narrazioni vere da quelle false.

Com'era l'ultimo Freddie Mercury? Il sapere di avere l'Hiv, che già nel 1987 si trasforma in Aids, cambia completamente la sua vita: all'epoca era una sentenza di morte. Ma dal 1987 al 1991 Freddie fa quello che farebbe appunto una leggenda: continua a registrare, e tra gli album più belli, come The miracle e Innuendo, quest'ultimo con la famosa, straziante The show must go on, che raggiunge note incredibili nonostante l'avanzato stato della malattia che gli rendeva difficile anche aprire la bocca. Brian May scrisse una strofa ardua, il famoso acuto finale, dicendogli, con delicatezza: «Credo andrebbe cantata in falsetto, non penso sia possibile cantarla a voce piena». Risposta di Freddie: «Tesoro, lasciami fare e dammi il microfono», due bicchieri di vodka e ciò che è venuto fuori lascia senza parole.

Per colpa del biopic, i non esperti credono che il culmine di Freddie sia stata l'esibizione al Live Aid del 1985, giudicata da Rolling Stone la più grande esibizione di tutti i tempi, ma non è così. Tra cure e peggioramento progressivo delle condizioni fisiche, con le forze che gli rimanevano, perfino nel 1991, poco prima della morte, Freddie incide canzoni su canzoni e gira due video: I'm going slightly mad e These are the days of our life. In entrambi è scarnificato, quasi irriconoscibile, ma a guardarli si resta comunque affascinati dalla forza della leggenda, che decide perfino quale sarebbe stata la sua uscita di scena dal video, fissando la telecamera, sorridendo, dicendo al pubblico «I still love you», vi amo ancora, e uscendo dall'inquadratura, lasciando lo sfondo nero, il nulla, la morte. Due capolavori. Negli studi si moriva di caldo, a causa dei riflettori, ma Freddie aveva degli scaldini sotto i vestiti, perché moriva di freddo, perché stava morendo ma voleva morire così, in scena.

Certo, come racconta De Ponti non era tutto rose e fiori, come non lo è per nessuna persona che stia morendo, anche se sei una leggenda. Nervosismi, giornate disperate, i vecchi amici non più ammessi alla corte, «semplicemente Freddie spariva, non eri più ammesso». Perché appartenevano a un'altra vita. Tra i pochi accettati gli ultimi giorni c'erano i Queen, il compagno Jim Hutton, ovviamente Mary, purché non lo trattassero come vittima e non fossero tristi.

«Non siete obbligati a dire niente se non avete voglia di parlare». John Deacon non andò, non sarebbe riuscito a non piangere, e è l'unico che dopo la sua morte si è ritirato, nessuno lo ha più visto. Poco prima di morire Freddie incise un altro album, solo con la drum machine, a Montreux, in Svizzera, per stare lontano dai giornalisti che assediavano Garden Lodge, dicendo a Brian, Roger e John che lo avrebbero finito loro dopo la sua morte.

Uscirà quattro anni dopo, con il titolo Made in Heaven, fatto in paradiso. L'ultima strofa cantata è una canzone incompiuta, Mother love, amore materno, che dice: «Mama please, let me back inside», mamma ti prego, riportami dentro, e descrive un mondo freddo e pieno di dolore, ma cantando «non voglio pietà, solo un posto dove nascondermi».

Mentre leggete il libro di De Ponti, potete anche ascoltare Face it alone, una canzone che i Queen hanno ripescato, scartata da The Miracle, che è appena uscita e già in testa alle classifiche di venticinque paesi. Mi chiedo se Roger Taylor e Brian May abbiano capito che i Queen sono morti il 24 novembre del 1991. Loro danno a John Deacon del pazzo, ma è stato l'unico lucido. Uno scarto? No, bellissima, e tragica.

Perché alla fine, qualsiasi felicità tu abbia vissuto, qualsiasi amore tu abbia, sono destinati a finire. Perché alla fine, alla fine devi affrontare tutto da solo, anche se sei una leggenda. «In the end, in the end, you have to face it all alone».

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