Macché Bellocchio, ecco la vera storia del figlio del Duce

Nel cinema i falsi storici sono leciti, quando non cambiano il senso degli eventi e la loro corretta valutazione. Sono inammissibili, invece, quando – come un documento inventato – influenzano arbitrariamente il giudizio degli spettatori. In Vincere, di Marco Bellocchio, ho verificato entrambi i casi, sia pure nei pochi spezzoni finora visibili.

La vicenda è reale quanto drammatica. Poco prima della Grande Guerra il giovane Mussolini conobbe nel Trentino, ancora austriaco, la coetanea Ida Dalser. Benito aveva già una figlia - Edda, nata da Rachele nel 1910 – ma fra i due nacque una passione furibonda: «Ti ho nel sangue, mi hai nel sangue», le scrisse lui, e lei vendette il salone di bellezza, che aveva acquistato a Milano, per finanziare il nuovo giornale dell’ex agitatore socialista, Il Popolo d’Italia. L’11 novembre 1915 Ida partorisce un bimbo che chiama Benito Albino: il 18 dicembre lo mostra al padre, ricoverato in ospedale per una ferita di guerra; la donna non può sapere, né lui glielo dice, che Benito ha già sposato civilmente Rachele. Il futuro duce, pressato da Ida, che si dichiara pubblicamente sua moglie, riconoscerà il bambino con un atto notarile l’11 gennaio 1916, negli stessi giorni in cui Rachele rimane incinta del secondogenito Vittorio; due anni dopo nascerà il terzogenito Bruno, poi Romano e Anna Maria. Benito, ormai al potere, sposerà Rachele in chiesa per dare l’esempio di una famiglia perfetta e in regola con le istituzioni civili e religiose.

Quello di Mussolini fu un comportamento ben più che disdicevole, e il peggio deve ancora venire. Ida continuava a dare problemi, tanto più fastidiosi da quando Benito era ormai, per tutti, il duce; la donna non cessò di pensare e sostenere, anche in pubblico, persino con una lettera a Pio XI, che Benito era suo e che «Benitino» era «il loro piccolo grande amore», come scrisse. Probabilmente non era matta, ma parecchio esaltata sì, e non fu difficile farla rinchiudere una prima e una seconda volta in manicomio, dove morì nel 1937.

Quanto al piccolo Benito Albino, ebbe dal padre un fondo di centomila lire (circa 75.000 euro), con una rendita del 5 per cento, e venne fatto adottare da un fascista compiacente perché cambiasse cognome. Il ragazzo, però, sapeva bene di chi era figlio, e nel 1935, durante il servizio militare, venne mandato addirittura in Cina. Al ritorno in Italia, morta la madre, fu internato anche lui in manicomio, dove morì nel 1942, forse a causa di iniezioni di insulina, che allora si usavano contro la schizofrenia.

Come si vede, ce n’è abbastanza perché Mussolini non ne esca affatto bene, e non occorreva che Bellocchio calcasse la mano. È accettabilissimo il falso che fa risalire la conoscenza fra i due amanti al celebre episodio in cui – durante un comizio – il futuro duce, cronometro alla mano, sfidò Dio a «fulminarlo» per dare prova della propria esistenza. Ida Dalser si sarebbe innamorata di lui in quel momento. Peccato che l’episodio risalga ai primi anni del secolo, e Mussolini si trovava in Svizzera, non in Trentino.

È un falso grave, invece, una delle scene centrali di Vincere, quando Mussolini e la Dalser vengono fatti sposare (addirittura in chiesa), durante la Prima guerra mondiale. A chi glielo faceva notare - ieri, a Porta a Porta - il regista ha ribattuto che la scena era un sogno della Dalser, ma nel film non appare così evidente, e lo stesso Bellocchio ha detto in un’intervista che Mussolini «fu a lungo bigamo». Oltre che essere bigamo, avrebbe dunque abbandonato l’anticlericalismo con parecchi anni di anticipo su quanto ne sanno gli storici.
Il problema vero, però, è un altro. Bellocchio ha dichiarato di avere voluto dimostrare che Mussolini «non era un uomo buono». Può darsi, eppure la bontà non è una categoria storiografica, soprattutto in un Paese che ha prodotto Niccolò Machiavelli. Harry Truman, nonostante le due atomiche fatte sganciare su Hiroshima e Nagasaki, è passato alla storia come un uomo sostanzialmente buono.


Amo Bellocchio per molti suoi film e per la critica al potere che contengono, familiare, religioso o politico che sia. E davvero non c’era bisogno di forzare la mano, per dimostrare che il potere - nella sua essenza più pura, quella dittatoriale – non può essere intrinsecamente, evangelicamente «buono».
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