
Tastiera QWERTY, come a dire la più diffusa in Occidente: prende il nome dalle sei lettere disposte in alto a sinistra; immediatamente sotto c'è la A, vocale indispensabile nella maggior parte delle lingue. Fu ideata nel 1868 da Christopher Sholes, americano del Wisconsin, in un'epoca in cui i tasti delle macchine da scrivere seguivano ancora l'ordine dell'alfabeto, ABCD e così via. Nel 1873 la Remington, la più nota azienda del settore, accettò l'innovazione di Sholes, ma non tutte la imitarono. L'Olivetti, per esempio, adottò la sequenza QWERTY solo per i prodotti destinati al mercato statunitense. È proprio da una macchina di questo tipo che si dipanano le vicende dell'ultimo romanzo di Giuseppe Lupo, Storia d'amore e macchine da scrivere (Marsilio, pagg. 215, 17 euro); precisamente da quando nel 1951 un giovane ingegnere ungherese, Sandór Molnár, riceve l'invito di un grande fisico anche lui ungherese, Dennis Gabor, che vive e insegna a Londra da qualche anno. Gabor (che verrà poi insignito del premio Nobel per l'invenzione dell'olografia) è interessato alla tesi di laurea di Molnár, dedicata all'influenza della luce sull'immaginazione. Quando i due si incontrano, Molnár riceve in regalo una Lettera 22, la stessa macchina da scrivere che usava Indro Montanelli; inoltre nel 1956, quando i carri armati sovietici invadono l'Ungheria, Gabor fa in modo che Molnár raggiunga prima Praga, poi Amburgo e infine Ivrea, la cittadina dove un altro ingegnere, Adriano Olivetti, ha creato un modello di industria anomalo che mette insieme socialismo utopistico e progressismo visionario, letteratura e cibernetica, riuscendo a sviluppare un modello di computer a transistor.
Molti anni dopo, un giornalista di origini sarde prova a intervistare Sandór Molnár, che ormai è un vegliardo al limite del deliquio, nel corso di un convegno internazionale che vorrebbe celebrarne la carriera. Sandór non solo ha dei segreti, ma li ha ben stratificati.
Chi è la ragazza che gli ha facilitato la fuga dall'Ungheria? Chi viaggiava sull'automobile nella quale morì, per un incidente stradale, il genio della cibernetica che consentì all'Olivetti di realizzare il primo computer a transistor? Ancora una volta Giuseppe Lupo, attento studioso della letteratura industriale nonché, come il suo eroe, «per sempre olivettiano» nello spirito e nel cuore, non resiste alla tentazione di romanzare le sue passioni intellettuali, stavolta sfiorando la speculazione filosofica: perché se è vero che il mondo è uscito da un alfabeto, come pretende la tradizione cabalistica, allora viene da chiedersi cosa accadrebbe se la disposizione delle lettere mutasse, o se addirittura qualcuno, magari un vecchissimo ingegnere ungherese, inventasse una macchina in grado di mettere in comunicazione direttamente il pensiero e la realtà senza passare attraverso il linguaggio. Chissà che un ordigno del genere non sia già dietro l'angolo.
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