Prestito ponte per l'Ilva: governo "costretto" in difesa dai giudici

Atteso a giorni un decreto per un prestito ponte, dietro la scelta almeno sette fattori, tra in quali la spinosa questione giudiziaria

Prestito ponte per l'Ilva: governo "costretto" in difesa dai giudici

Alla fine il decreto Ilva del Consiglio dei Ministri guidato dal Presidente Giorgia Meloni ci sarà, ma, diversamente da come fatto trapelare da qualcuno, non sarà né per la nazionalizzazione, né per l’aumento societario pubblico e né per un cambio di governance. Bensì un prestito ponte, sfruttando quel miliardo già stanziato con il decreto aiuti bis a luglio, ma da allora mai arrivati nelle casse dell’azienda.

I sette punti che hanno condizionato il governo

Ci sono diversi aspetti che hanno portato a più miti consigli il ministro Adolfo Urso, inizialmente partito spedito verso un accordo con gli enti locali a danno di ArcelorMittal. Il primo è sicuramente l’impegno già preso da precedenti governi con il socio privato: 900 milioni diretti più 700 tramite garanzia Sace. Il secondo è che per i vincoli contrattuali siglati, oggi a essere inadempiente è la parte pubblica. Il terzo è che non si sono palesati altri industriali disponibili a prendere il posto di ArcelorMittal. Il quarto punto è che senza liquidità l’azienda era pronta a portare i libri in tribunale. Il quinto, collegato al precedente, è che altri esponenti del governo, tra tutti Fitto, Tajani e la stessa Meloni, a quel punto sono intervenuti chiedendo un cambio di strategia. Il penultimo punto riguardava invece l’aumento pubblico vincolato al dissequestro, che però non è avvenuto: lo stabilimento è ancora proprietà dell’amministrazione straordinaria e sotto sequestro dell’autorità giudiziaria.

Il nodo della questione giudiziaria

L'ultimo aspetto che è stato decisivo per convincere Urso, è arrivato con le motivazioni del primo grado del processo del 2012, pubblicate lo scorso 29 novembre a un anno e mezzo dalla lettura della sentenza. Secondo i giudici della corte d’assise di Taranto, non solo l’area a caldo non può essere dissequestrata, ma neppure l’Autorizzazione Integrata Ambientale, ovvero la legge adottata con Dpcm del 2017 che autorizza l’esercizio dello stabilimento, è sufficiente.

Nel provvedimento i giudici scrivono: “anche un'eventuale realizzazione completa dei lavori AlA, ritenuti idonei a risolvere i problemi ambientali del siderurgico, non darebbe alcuna garanzia di certezza sul rendimento non inquinante degli impianti stessi, in considerazione del previsto incremento della produzione. Quindi non solo, al momento della decisione finale, il Piano Ambientale non aveva ancora trovato completa attuazione, ma anche un eventuale conclusione dello stesso non darebbe alcuna garanzia di superamento delle esigenze di tutela poste a fondamento del provvedimento cautelare; tale positiva verifica si avrà soltanto quando, in seguito al completamento dei lavori, l'impianto sarà portato alla produzione autorizzata e i conseguenti e successivi accertamenti dell'A.G. verificheranno che effettivamente l'impianto non è inquinante. Ne discende che neppure l'adempimento completo dei lavori AlA rappresenterebbe condizione sufficiente per il dissequestro, dovendosi effettuare in ogni caso una valutazione in concreto sulla reale utilità dei lavori effettuati e sull'idoneità degli stessi a rendere l'impianto non inquinante; valutazione che al momento non può essere effettuata dato che l'impianto a caldo del siderurgico tarantino risulta attualmente operativo a meno della metà della sua forza produttiva”.

Questo vuol dire che i giudici di Taranto si arrogano il potere di decidere, di fatto superandola, se la legge che consente a Ilva di produrre è sufficiente.

Il paradosso nelle decisioni dei giudici

Non solo, se come scrive la Corte d'assise "tale positiva verifica si avrà soltanto quando, in seguito al completamento dei lavori, l'impianto sarà portato alla produzione autorizzata e i conseguenti e successivi accertamenti dell'A.G. verificheranno che effettivamente l'impianto non è inquinante” significa che i giudici potranno effettuare tale verifica solo quando l’impianto verrà portato al limite massimo consentito 6 milioni di tonnellate. E se ciò non dovesse mai accadere, l’impianto è insicuro? Anche se produce la metà, e quindi molte meno emissioni?

In altre parole la Corte d'Assise chiede che l'impianto venga portato alla massima potenza, per poter verificare se è legale mentre nega il dissequestro perchè lo considera illegale, una situazione paradossale. Tra l'altro proprio le prescrizioni mancanti citate nella sentenza, le barriere frangivento nell'Area GRF, sono nel frattempo state realizzate.

Il nodo dell'inquinamento

Inoltre per i giudici anche i Commissari di Ilva in amministrazione (nominati dal Mise, in questo caso dall’allora ministro Luigi Di Maio) proprietari dell'impianto, continuano a inquinare. Scrivono nella sentenza: “anche la circostanza che ILVA spa sia stata sottoposta ad amministrazione straordinaria, non può dirsi tranquillizzante... Per escludere la legittimità del sequestro ai fini della successiva confisca di un bene appartenente a "persona estranea al reato", per tale deve intendersi non solo chi non ha concorso nel reato, ma anche chi non ha avuto, per difetto di vigilanza o altro, alcun tipo di colpevole collegamento, diretto o indiretto ancorché non punibile, con la consumazione del reato; nel caso di specie, infatti, non solo deve dirsi una continuità soggettiva in senso stretto tra ILVA spa e ILVA in AS, né, inoltre, può ILVA in AS, assimilarsi al terzo in buona fede, attesa la sua piena consapevolezza dello stato degli impianti”.

Ma questo è assurdo considerato che la soggettività giuridica è impersonata da nuovi soggetti di nomina governativa, ma anche sul piano oggettivo, atteso che l’amministrazione dev’essere coerente rispetto alle finalità, non dei soci, ma del Programma dell’amministrazione straordinaria (ristrutturazione o vendita degli asset). Ignorare tutto ciò significa non avere ben chiaro il quadro normativo e giuridico dentro il quale dev’essere condiderata Ilva.

Il conflitto tra la sentenza e l'ordinanza di rigetto

La sentenza nel paragrafo sul sequestro dice anche una cosa in più non vera rispetto all’ordinanza di rigetto: che non sarebbero stati rispettati i valori limite di legge. Ma i dati sul benzoapirene si riferiscono a due mesi, dicembre 2021 e gennaio 2022, superiori a 1 ng/mc come media mensile. Mentre la legge fa riferimento al valore limite di 1 ng/mc da non superare come media annuale, e non mensile come scritto nella sentenza. Tutto questo mentre il ministero dell'Ambiente proprio la settimana scorsa in Commissione è tornato a ribadire che l'impianto è in regola con i limiti ambientali previsti dalla legge.

Del resto parliamo dello stesso collegio di sei giudici che lo stesso giorno della sentenza ha emesso un provvedimento che fissava a oltre un miliardo di euro la liquidazione del custode giudiziario che ancora oggi ha in mano l’area a caldo sequestrata. Cifre anche queste da mettere a bilancio pubblico, da aggiungere a quelle che il governo vorrebbe versare per un aumento societario.

Aumento che forse non può nemmeno essere fatto dato che i giudici hanno depotenziato le leggi. Un atto che non solo mette nelle mani dei magistrati le politiche industriali, ma lambisce anche il potere legislativo ed esecutivo. Con un atto del genere si configura per lo Stato un vero e proprio danno erariale oltre che economico e industriale. Di contro ci sarebbe mai un privato disposto a investire con queste condizioni?

A questo punto su Ilva prima che al ministro Urso la palla dovrebbe passare al ministro Carlo Nordio.

Qualcuno gli chieda di mandare gli ispettori al tribunale di Taranto, che da quel giorno del sequestro preventivo senza facoltà d'uso dell'area a caldo, del prodotto finito, e degli arresti ai Riva, tengono in mano la fabbrica siderurgica più grande d'Europa e il destino industriale del Paese.

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