La maledetta che sfida il soul perbene

Che un talento eccentrico e iconoclasta come quello di Amy Winehouse spopoli ai Grammy, kermesse dal prevalente indirizzo mercantilistico, è grata ma un po’ incongrua notizia: come se Piero Ciampi avesse vinto un festival di Sanremo, o Guccini trionfasse al Festivalbar. E tuttavia ben venga, se un'artista così aliena dai birignao commerciali trionfa nel dominio del pop di consumo, e se quest'ultimo si apre all'arte vera, al cui versante maudit Amy appartiene. A patto, ovviamente, di non confondere la genuinità sofferta e le scaturigini profonde della sua trasgressione con le bizze da ragazzetta viziata d'una Britney Spears o con l'anticonformismo, astutamente pianificato, di Madonna.
Amy Winehouse no, e hanno un bell'esortarla, i Rolling Stones, a rinunciare alle droghe, come s'apprende da Berlino. Pesa su lei l'angoscia solitaria di tante cantanti jazz - ricorre talvolta, negli studiosi, il raffronto con Billie Holiday - e la rabbia on the road dei grandi hip hoppers: non per niente la sua musica è un miscuglio avvelenato di jazz, rap, rhythm and blues, mal prestandosi al manierismo patinato di tante reginette del soul. Il suo maledettismo insomma non è un furbastro pretesto per espugnare le cronache, ma una dimensione innata, che inclina pericolosamente all'autodistruzione.
Questa scomoda grandezza non è stata creata a tavolino dai soloni del marketing, ma effonde le sue radici fin dall'infanzia di questa ragazza inglese dall'estro irrequieto, dalla vocazione ribelle, dalla voce nera arrochita dalle dissipazioni. Cresciuta in una famiglia i cui numi erano Carole King, James Taylor e Frank Sinatra, e invece più attratta, lei, da Ray Charles, Erykah Badu, Roy Avers, dai Rimbaud dell'hip hop, dai Lucifero del blues. Cacciata da varie scuole per scarso amore allo studio e per atteggiamenti non proprio protocollari, affascinata prima dal grunge, poi dal genio di Jimi Hendrix, quindi dal reggae. Fino a creare un personalissimo impasto di tutto questo, e a proporlo con ispirata impudenza nell'album d'esordio, Frank, per poi ribadirlo in Back to black, già nel titolo una sfida.


La sfida è al soul, calligrafico e surrettizio, cui accennavo, e un brano dell'ultimo disco la sintetizza perfettamente, insieme al carattere inarrendevole di questa grande artista, e alle sue rischiose scelte di vita. Dice il brano: «You know I'm no good», e di certo Amy Winehouse non avrebbe potuto definire se stessa con più sfacciata sincerità.

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