Mancato sgombero del Leoncavallo. Il Viminale deve 3 milioni ai Cabassi

I giudici condannano il ministero per non aver agito: "Le esigenze di occupanti abusivi non possono giustificare l'illegalità". Il primo ordine di sfratto nel 2003

Mancato sgombero del Leoncavallo. Il Viminale deve 3 milioni ai Cabassi
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Il mancato sgombero del Leoncavallo costerà allo Stato più di 3 milioni di euro. La Corte d'appello civile di Milano ha condannato il ministero dell'Interno a risarcire, appunto, con 3 milioni e 39mila euro la Orologio srl, società degli storici immobiliaristi Cabassi, perché il centro sociale non è stato per lunghi anni sgomberato.

Per l'occupazione abusiva dello stabile di via Watteau 7 dal 26 maggio 2005 al 2 luglio 2024 i legali della famiglia Cabassi, gli avvocati Renato Bocca, Mauro Pisapia, Giuseppe Lombardi e Camilla Scalvini, avevano citato in causa, oltre al Viminale, anche la Presidenza del Consiglio chiedendo un risarcimento di 24 milioni di euro. La sentenza, emessa dal collegio Maddaloni-Ferrero-Grazioli della Seconda sezione civile d'Appello e che ha accolto parzialmente il ricorso della Orologio srl, ha tenuto conto del fatto che non sarebbe «realistico» che «le forze di polizia avrebbero eseguito lo sgombero del Leoncavallo con il primo accesso» nel 2005 ed è ragionevole fissare in «nove anni» e quindi nel 2014 il termine per l'esecuzione alla luce «della situazione complessa, valutazioni di gestione, di sicurezza e dell'ordine pubblico». Elementi che hanno in qualche modo giustificato il «ritardo», spiegano i giudici, però «non oltre i termini indicati».

I giudici sottolineano inoltre nella sentenza che la Pubblica amministrazione «istituzionalmente» deve «essere in grado di assicurare la sicurezza dei cittadini contro l'occupazione abusiva facendo rispettare i pronunciamenti dell'autorità giudiziaria». Secondo la Corte, nelle varie argomentazioni che avrebbero giustificato i «rinvii» dello sfratto da parte della Prefettura «non sono state affatto individuate specifiche necessità di ordine pubblico da opporre all'interesse del privato» ma «solo generiche esigenze» e «non è stata assicurata la minima certezza quanto alle tempistiche, che si sono protratte per anni». Spiega il collegio nelle 22 pagine di dispositivo che ha rovesciato la decisione di primo grado: «È evidente che le esigenze abitative degli occupanti abusivi non possono mai giustificare la mancata attuazione di misure efficaci a ripristinare il diritto» del privato e «men che meno un attendismo tuttora in corso». E aggiunge: «Le ragioni di tutela dell'ordine pubblico», comunque avanzate negli anni, non possono «giustificare la mancata esecuzione del provvedimento giurisdizionale di rilascio». Questo perché, «diversamente opinando, si dovrebbe ritenere che, ogni volta che qualcuno si opponga all'esecuzione di un provvedimento giurisdizionale, il cittadino, che pure si sia attivato in sede giurisdizionale per tutelare il proprio diritto, debba vedere questo sacrificato a fronte della condotta delittuosa posta in essere da terzi». Dunque: «Può ritenersi pertanto acclarata la natura illecita del contegno serbato dall'Amministrazione che, pur nella piena consapevolezza della occupazione abusiva che interessava lo stabile in oggetto di causa, non ha dato corso all'esecuzione del provvedimento giudiziario e, adducendo solo generiche difficoltà di ordine pubblico in caso di sgombero, ha lasciato che il tempo passasse, senza adoperarsi effettivamente per pervenire a una soluzione». Il rilascio dell'edificio sede dello storico centro sociale era stato deciso nel 2003 e confermato in via definitiva dalla Cassazione nel 2010. In circa vent'anni sono stati fatti un centinaio di tentativi.

I Cabassi nelle loro rivendicazioni lamentavano una «condotta omissiva della Pubblica amministrazione, consistita nell'ingiustificata mancata concessione della forza pubblica al fine di consentire l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali». Ora l'Avvocatura dello Stato, che nel processo rappresenta gli interessi del Viminale (e della Prefettura come organo territoriale) dovrà valutare se presentare o meno ricorso in Cassazione.

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