Mark Twain, l’autore dei grandi classici della letteratura americana, trovò sempre difficile scrivere un’autobiografia. Nella sua prosa riteneva importante «la parola giusta, la chiarezza dell’esposizione, e qua e là un tocco di buona grammatica per dare colore», ma la struttura fu per lui sempre un problema. La trama del celebre Huckleberry Finn ad esempio si sfalda verso la fine e lo stesso Hemingway che esaltava il romanzo definiva la risoluzione della storia «una truffa». L’autobiografia fu un tormento che lo tenne occupato per molti anni, a diverse riprese, dal 1870 al 1905, sempre insoddisfatto del risultato. «Che poca cosa sono le azioni e le parole di un uomo, la sua vita vera è nella sua testa ed è nota soltanto a lui, a nessun altro», scrive aggiungendo che «le biografie sono solo gli indumenti e i bottoni di un uomo – la biografia dell’uomo in sé è impossibile scriverla». Dopo numerosi tentativi decise di usare come metodo di composizione la dettatura e «iniziare da un momento qualsiasi della propria vita, spaziando a volontà fra i ricordi, parlare solo delle cose che interessano in quel momento, lasciarle cadere non appena l’interesse sbiadisce, trasportare il discorso sulle cose nuove e più interessanti che nel frattempo si sono imposte alla mente». Doveva essere una combinazione di «Autobiografia e Diario», una forma in cui «passato e presente siano costantemente in tensione», convinto che questa mancanza di cronologia lineare avrebbe aperto la via a una nuova forma autobiografica, un’invenzione letteraria che per importanza si piccava di paragonare alla macchina a vapore, alla stampa, al telegrafo.
Nel 1906 cominciò a dettare liberamente e senza riserve a una stenografa e nel 1909, giunto a 5.000 pagine dattiloscritte, dichiarò il lavoro terminato, insistendo su una pubblicazione postuma: l’autobiografia doveva uscire solo cent’anni dopo la sua morte, che sopravvenne l’anno successivo. L’embargo era necessario alla sua ambizione di raccontare il vero su di sé e sugli altri senza pregiudizi, senza timore di ferire la sensibilità altrui e senza vergogna per le proprie confessioni più intime, per essere «schietto e spontaneo, come in una lettera d’amore, senza imbarazzi». Ma nell’ultima istanza fallì, perché, come doveva ammettere, «un uomo non può dire tutto il vero su se stesso, anche se convinto che nessuno vedrà ciò che ha scritto».
Se l’embargo non fu completamente rispettato e molti stralci sono trapelati da diverse edizioni frammentarie, quest’anno a cent’anni dalla morte è finalmente in libreria il primo volume dell’autobiografia integrale prevista in tre volumi (2.000 pagine) per fine decennio. Un’impresa accademica curata da Harriet Elinor Smith del «Mark Twain Project» e pubblicata per i tipi della University of California Press, l’Autobiography of Mark Twain. The Complete and Authoritative Edition, Volume 1 è già considerata un classico della letteratura americana. Non la storia della vita di Twain, ma, come annuncia l’autore, «I fuochi vulcanici dei pensieri che bruciano senza sosta nella nostra testa e che sono la vera vita di un uomo». Non «I fatti e gli avvenimenti», ma la sua voce.
Il nome di Mark Twain – nom de plume di Samuel Langhorne Clemens - è sinonimo delle Avventure di Tom Sawyer, Huckleberry Finn, Vita sul Mississippi, Innocenti all’estero, Seguendo l’Equatore, romanzi dai quali, come osservava Hemingway sottolinenando l’importanza di Huck Finn, discende tutta la letteratura moderna degli Stati Uniti. Nato nel Missouri nel 1835, trascorse l’adolescenza e la prima giovinezza a Hannibal, un piccolo porto sul Mississippi. Dopo anni avventurosi durante i quali fece di tutto, l’apprendista tipografo, il giornalista, il timoniere di un battello a vapore sui fiumi, il cercatore in una miniera d’argento non senza una breve parentesi militare nel 1861 durante la Guerra di secessione, impugnò definitivamente la penna per scaricare la sua vena caustica contro la crudeltà e l’ingiustizia sociale. Di carattere pessimista ma umorista finissimo, - «fonte segreta dell’umorismo non è la gioia ma il dolore» dirà - narratore satirico, scanzonato e irrispettoso e talvolta irriverente, cronista delle vanità dell’uomo, paladino dell’austerità dell’ideale puritano a fronte della corruzione e dell’ipocrisia delle società in declino, divenne un’icona nazionale incarnando la quintessenza dello scrittore americano. Egli stesso del resto verso la fine del 1890 a Firenze annotava nel suo taccuino «Non sono “un” Americano, bensì “l’Americano”». Era perfettamente cosciente di essere uno scrittore «curiosamente e intimamente americano», che nei temi disparati delle sue opere sviscerava gli eterni dilemmi della società americana: l’individuo e la società, il libero mercato e la giustizia sociale, populismo e snobismo, onore e inganno. Americano era indubbiamente il suo misto di cinismo e idealismo, di sentimentalismo e scetticismo.
Nell’autobiografia prevale il conversatore che predilige l’aneddoto. Corredato da un impeccabile apparato scientifico il primo volume apre con i frammenti dei primi tentativi autobiografici, fra cui minute descrizioni della Villa di Quarto a Firenze dove Twain visse parte degli ultimi anni. L’autobiografia vera e propria inizia dopo duecento pagine comunque di grande interesse. Twain ha sempre avuto la capacità di registrare le pressioni sociali contemporanee in pungenti aforismi, spesso lungimiranti, con il suo celebre sarcasmo. «È stato meraviglioso trovare l’America, ancora più meraviglioso sarebbe stato perderla». Riflettendo sul carattere dell’uomo scrive: «L’uomo è la sola creatura che infligge dolore per sport, che uccide per divertimento, per vendetta, per cattiveria».
Filo conduttore di queste pagine sperimentali più parlate che scritte è una sana indignazione molto spesso rivolta a una società sempre più dominata dalla corruzione e dall’interesse personale. La preveggenza di Twain è straordinaria, se denuncia finanzieri e speculatori è altrettanto critico della politica estera americana, condannando gli interventi imperialisti a Cuba e nelle Filippine. Ma il suo sconforto va oltre la politica, meditando sulla «fastidiosa e monotona ripetizione della vita dell’uomo» si chiede se questa abbia un senso, una domanda che ricorda si poneva da bambina l’amata figlia Susy morta di meningite a ventiquattro anni, un dolore dal quale Twain non si riprenderà mai. Oltre a tenere pagine sulla vita domestica, il volume evoca la sua adolescenza in una fattoria del Missouri, le lezioni della madre per insegnargli a considerare i sentimenti di un bambino figlio di schiavi – ricorda che una «linea sottile» lo separava dai bambini negri della fattoria. Ci sono i racconti d’infanzia che ritroveremo in Tom Sawyer e Huck Finn. Se Tom Sawyer – come ammette l’autore - è in gran parte una versione di se stesso da giovane, «in Huckleberry Finn ho descritto Tom Blankenship esattamente com’era. Ignorante, tutt’altro che pulito, malnutrito, ma aveva un grande cuore… Era la sola persona veramente indipendente nella comunità, e di conseguenza era sempre e quietamente contento, ed era invidiato da tutti noi…».
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