Mastella: "Non sono un capo cosca Le nomine? Quelle sì, le facevo io"

Il leader dell'Udeur si difende: "Daremo l'appoggio esterno". Le telefonate ai leader del Pd e la polemica con Di Pietro. Il figlio: "Siamo una famiglia normale"

Mastella: "Non sono un capo cosca  
Le nomine? Quelle sì, le facevo io"

Ceppaloni (Benevento) - E poi, ad un tratto, Clemente Mastella è davvero sull’orlo delle lacrime. Nella storia della politica mediatica ci sono pianti utili e pianti necessari, pianti sinceri e pianti insinceri, pianti indotti e pianti rabbiosi, pianti accattivanti e pianti che producono consenso, pianti come quello di Hillary Clinton, che ti fanno tornare in corsa quando sembra che nessuno ti ami più.

I pianti dei politici sono così, è vero, terribilmente seduttivi, ma le lacrime trattenute no, quelle sono sempre vere. Mastella arriva sull’orlo della lacrime dopo una conferenza stampa che è come un monologo teatrale: sessanta minuti nell’Hotel President senza nemmeno prendere fiato, sessanta minuti in cui parla di tutto, si difende dalle accuse, ringrazia chi gli è stato vicino, risponde a chi lo ha inquisito, si difende, attacca, dispensa frammenti di autobiografia, annuncia – stretto fra i sindaci dell’Udeur con la fascia tricolore al petto - che lui e il suo partito lasciano il governo: «Siamo fuori». Sessanta minuti in cui la vita, tutta la sua vita gli passa davanti agli occhi veloce come un treno e tutti in quella sala, sia lui che i giornalisti che i militanti del suo partito, sanno e capiscono che potrebbe anche essere l’ultima corsa.

Tutti i politici - ma forse tutti i grandi personaggi, qualunque cosa si pensi di loro - hanno di questi momenti. Attimi in cui si sta in bilico fra la gloria e la tragedia, attimi in cui sembra che il mondo ti stia per cadere sulla testa, momenti-verità in cui sai che ogni parola pesa. Eppure, fra atti giudiziari, intercettazioni e annunci clamorosi, fra polemiche (anche feroci) e normale battaglia politica, i tre momenti in cui durante il suo monologo Clemente Mastella è sull’orlo delle lacrime, sono sempre e solo quelli in cui parla di Sandra. Sandra Lonardo, sua moglie, Sandra «la reclusa». Sandra agli arresti domiciliari «e io le starò vicino, finchè questa storia non finisce. Scusatemi, ma mi vedrete poco a Roma».

Sandra chiusa nella villa, piantonata dagli agenti della polizia giudiziaria con l’uniforme grigia, quegli stessi che ironia della sorte dipendono dal ministero di Mastella, o meglio – da ieri – dal suo ex ministero, «perché basta, mi dimetto, confermo le mie dimissioni, voglio difendermi da normale cittadino. Non sono e non sarò mai uno della Casta!». Sandra, Sandra: la stessa Sandra che Clemente ha corteggiato in America, quando era «un ragazzo del sud emigrato con una borsa di studio messa a disposizione dagli zii», quella Sandra per cui è arrivato vergine all’altare, e Mastella sa bene – perché lo ha raccontato – quanto gli costò quel voto di fedeltà, a lui, «ragazzo corteggiatissimo» nella Ceppaloni degli anni Sessanta.

E poi Clemente per un attimo sembra che le lacrime se le tenga strette con i denti e con il respiro, gli occhi a palla girano, la gola deglutisce, le mani trovano un bicchiere di carta per un sorseggio che rompe il trip. È il momento in cui Mastella sta parlando di che cosa voleva dire essere «un figlio del meridione senza dei genitori che ti dicessero qual è la strada: mio padre era solo un insegnante di paese». Lui, ricorda, era uno venuto dal nulla, «Tutto quello che io e Sandra abbiamo ce lo siamo conquistati da soli». Ed è proprio quel momento in cui Mastella ha le lacrime che stanno per scendere giù: «Ma io... ho scelto... una ragazza...». E poi il bicchierino di carta e quella frase che spiega molto di più di quello che avrebbe potuto dire se solo l’avesse completata.

Non le capisci, la storia di Clemente e Sandra e le loro scelte di queste ore se non insegui quel filo di commozione, quel romanzo di formazione che affiora come un mito trasfigurato fra una dichiarazione e l’altra di un ministro che si dimette.

Non lo capisci questo pezzo di Sud governato dal Campanile, con gli udeurrini che fanno a botte per stare sul palco «Dietro a Clemente» e il presidente dell’Aci Franco Trusio che fa da buttafuori, se non entri dentro questo modellino iperfamilistico ma terribilmente vitale, se non ti cali in questo partito-famiglia in cui il leader fa il ministro, il consuocero è il numero due, la segretaria dei giovani è la fidanzata del figlio, il cognato è parlamentare, il giornale del partito paga i pacchi dono di Natale, e la first lady è la donna-immagine.

Non si capisce la rabbia di Clemente, se non ci si rende conto che l’Udeur in fondo è anche la sublimazione della famiglia italiana con tutti i suoi peggiori difetti e tutti i suoi migliori pregi, con il limite della prossimità che diventa clientela, ma anche il pregio degli affetti e delle emozioni che corrono come un fiume prorompente.

E non si spiega, la rabbia di Clemente, se non si capisce che sua moglie Sandra è il simbolo che tiene insieme tutto: «I nostri genitori ci hanno cresciuto con i criteri di questa terra, con la convinzione che rubare, prima ancora di essere un reato, è un peccato» (boato).

Lo storico Paul Ginsborg ha pubblicato per l’Einaudi una celebre «Storia d’Italia» fondata su una lente interpretativa che mette al centro di tutto la celebre categoria del «familismo amorale». Mastella ieri, per difendere la propria storia, ha inconsapevolmente ribaltato quel modello, e tessuto un elogio rabbioso del «familismo morale», il suo modello, la sua personalissima «way of life»: «Sì, è vero, in questa provincia e dove governiamo noi, io scelgo le persone che conosco, ma in questa provincia la sanità funziona meglio che nelle altre, e i rifiuti, che purtroppo sono più di quel che vorrei, non inondano mai le strade come nel resto della Campania».

E poi Mastella dice le due cose che più contano. La prima sul piano giudiziario, la seconda su quello politico. «Io sono quello che conoscete perché in trent’anni di vita non si cambia, e anche se volessi non saprei come fare». Non è possibile, prosegue, con la voce che si incrina, «che io sia improvvisamente diventato il capo di una cosca! E che mia moglie una da trattare con un regime più duro del 41bis, quello che non si riserva nemmeno alle mogli dei capimafia!».

Poi, con un respiro che di nuovo gli taglia le parole: «Io ora mi dimetto, come è giusto, perché se sono indagato, certo non posso fare il ministro della Giustizia. Ma...». Un altro respiro. «... Ma quando questa vicenda giudiziaria si sarà conclusa e noi saremo giudicati innocenti, chi mi ripagherà? Chi?».

E poi, di nuovo sul filo dell’ira: «E se per una nomina io sarei concussore, possibile che per tutte le altre nomine in Campania non ci sia nemmeno un concusso?». Pausa: «Io combatto contro questa inchiesta non da politico, ma pensando che qualunque cittadino, domani, potrebbe essere intercettato e arrestato come me. Non vi fidate di un gip che prima arresta una persona incensurata, e poi emette un giudizio di incompetenza». Anche perché – e qui stavolta Mastella ruggisce – «non c’è un soldo, un euro, una sola tangente che io abbia mai dato o preso». Quanto alle scelte dell’Udeur, Mastella si fa laconico: «La crisi non è tanto del governo, ma di sistema. Perché se un gruppo di magistrati decide di mandare a casa un governo lo fa».

Quindi il dado è tratto: «Noi ora nel governo non ci siamo. E se al governo non ci sei, non ne fai parte, ovvio».

E poi Mastella trattiene le lacrime, ma non la rabbia, non le emozioni. Insieme alla vicenda giudiziaria arriverà una sentenza diversa, un sentenza sul partito-famiglia che si è incarnato in questa terra. Ma che, come diceva Leo Longanesi, è anche un frammento della storia d’Italia.

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