"Mi facevano fare il cinese. Ora recito da vero italiano"

L'attore di Seul adottato da una famiglia di Bergamo. "Ho lottato molto, ma questo Paese non è razzista"

"Mi facevano fare il cinese. Ora recito da vero italiano"

«L'Italia non è un paese razzista, la maggior parte degli italiani non lo è. L'atteggiamento di pochi non deve macchiare quello di molti». Questo il pensiero di Yoon C. Joyce, attore di origini sudcoreane, 47enne nato a Seul e adottato all'età di tre mesi da una famiglia bergamasca. Oggi si divide tra Londra e Bergamo, è protagonista della serie per la tv spagnola Paraiso (dove interpreta il tenente di una squadra Omicidi) e nella commedia Mai dire Kung Fu, con il comico Lillo Petrolo, su Amazon Prime.

Cosmopolita per obbligo e attitudine, per via del lavoro del padre fino a 16 anni vive tra Algeria, Arabia Saudita, Austria. Torna in Italia ancora adolescente, ma l'impatto è tutt'altro che roseo. Subisce atti di bullismo per via della sua etnia e viene picchiato più volte da coetanei, al punto da finire in ospedale. Tutto questo in quell'istituto per geometri, percorso di studio consigliatogli con fermezza dal padre, che non ha mai corrisposto alle sue reali passioni. Trova allora conforto in una scuola serale di recitazione che gli consente di trovare una chiave personale per esprimersi e raccontarsi. «Il ruolo di attore è socialmente incisivo quanto quello di un politico, perché costringe lo spettatore a un'immedesimazione, l'unico modo per fargli comprendere un vissuto alternativo al proprio. Ma per arrivare a questa libertà ho dovuto lottare molto, recitare mi ha letteralmente salvato la vita».

La sua carriera inizia negli anni Novanta, quando si fa notare in S.P.Q.R. 2000 e ½ anni fa di Carlo Vanzina, ma è solo l'antipasto di una carriera intercontinentale. «All'inizio in Italia mi chiamavano più che altro per interpretare personaggi marginali, secondari, caricature del classico cinesino con la erre arrotata, ma ho sempre sperato arrivasse il tempo in cui un coreano naturalizzato italiano potesse ambire a interpretare il ruolo di un italiano a tutti gli effetti».

A 22 anni si trasferisce negli Stati Uniti, «ho fatto lavoretti per mantenermi, ho studiato all'accademia di arte drammatica a Los Angeles, poi a New York. Sono tornato in Italia dopo il famoso attentato dell'11 settembre. Al ritorno dagli Usa ho lavorato molto per la tv, perché in quel periodo le fiction italiane, come Rex o Squadra Antimafia, avevano scoperto la tematica della mafia cinese. Ma i miei ruoli, almeno in Italia, erano costantemente collegati a quel tema e soprattutto alla mia etnia. La svolta arriva con Ti amo in tutte le lingue del mondo, film del 2005 di Leonardo Pieraccioni, dove finalmente interpreto un ruolo in cui mi veniva concesso di parlare con un accento italiano (e non orientale), visto che è la mia lingua madre. Ho percepito in quel momento sulla pelle un cambiamento professionale, che stava diventando anche culturale». Ma Joyce ha nel cuore una scommessa più grande: «Ormai ho solo un sogno da realizzare, diventare una risorsa per il cinema italiano, quello del paese in cui sono cresciuto e che amo alla follia. Vorrei un ruolo da protagonista in un film o una serie tv che mi consenta di coprire i panni di un avvocato, un medico o un padre di famiglia, che parla perfettamente italiano, magari sposato con un'italiana ed evitare così quei ruoli legati ai miei tratti. Non è così semplice in Italia puntare a un ruolo di questo tipo». Ma Joyce è poco propenso al vittimismo, racconta piuttosto di un Nord Italia aperto al confronto e di un cinema aperto all'evoluzione. Col tempo nel suo curriculum sono arrivati ruoli in Nirvana di Gabriele Salvatores, Gangs of New York di Martin Scorsese e serie tv come The Vatican, diretta da Ridley Scott.

«Rispetto agli anni Ottanta in Italia tutto è cambiato, perché sono evolute le generazioni, le possibilità di apertura al mondo, grazie all'informazione. Il giovane d'oggi può viaggiare con più facilità e a minor prezzo. Ai miei tempi un aereo per l'Inghilterra costava un milione e mezzo di lire, ora si può andare ovunque e questo trasforma il pensiero. Fenomeni come i voli low cost hanno permesso a tanti di viaggiare e aprirsi la mente. Nella mia città, Bergamo, l'associazione RUAH si batte da sempre contro il razzismo e organizza eventi centrati su quel tema. Recentemente ho condotto la tredicesima edizione del suo festival di punta, I.F.F (Integrazione Film Festival), che seleziona cortometraggi con protagonisti di varie etnie non costretti in ruoli stereotipati. Ho conosciuto tantissimi italiani (non solo bergamaschi) sensibili alla tematica, mi sono confrontato con loro e ho capito quanto certi preconcetti siano radicalizzati in una minima parte della popolazione (che purtroppo fa un danno enorme)».

Ma se da una parte Joyce ha un curriculum internazionale, le sue origini appartengono a un mercato, quello coreano, tra i più fiorenti al mondo nella produzione di film e serie tv internazionali. Successi recenti su larga scala di serie come Squid Game o Avvocata Woo, sono sintomo di una nuova attenzione verso il mercato asiatico. «È una tendenza molto viva in vari paesi, che presto arriverà anche da noi. Per il resto, il cinema italiano esula dal concetto di razzismo in senso assoluto. Se ha una minima colpa è quella di aver portato in scena una certa stereotipizzazione di personaggi appartenenti ad etnie minori, ma con la sempre più crescente popolarità del cinema coreano e del sud est asiatico, noto che negli ultimi anni l'interesse verso il mercato orientale sta proprio cambiando. Per esempio nella serie The Net- Gioco di Squadra (in onda lo scorso gennaio su Rai2) interpreto uno dei protagonisti Zhang, nato e cresciuto a Firenze, che è stato in Cina solo una volta in vita sua, pertanto, come il sottoscritto, è italiano al 100%.

Solo cinque anni fa interpretare questo ruolo non mi sarebbe stato possibile, simili prodotti non erano contemplati. La nuova generazione non ha i preconcetti di quella precedente. I nuovi sceneggiatori, registi e produttori, cambieranno radicalmente la realtà non solo cinematografica, ma anche di riflesso, quella sociale». Joyce auspica per sé e per i colleghi, quindi, una nuova era che avverte già concretamente nell'aria. «Purtroppo, al momento, spesso si tratta di prodotti indipendenti che avrebbero bisogno di maggiore visibilità e finanziamenti.

Credo che una grande svolta si avrà quando l'industria nostrana comprenderà che un attore come il sottoscritto in un ruolo da nuovo italiano come protagonista assoluto, potrebbe portare un contributo innovativo. Un riflesso del mondo che sta cambiando e che da italiano vorrei incarnare con orgoglio».

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