La mia vita arrabbiata tra fede e morte

La carne, la morte e la rivoluzione di una donna libera. Ecco il romanzo postumo della Fallaci: una "cronaca familiare" che copre due secoli di storia e nello stesso tempo un'arrabbiata autobiografia

La mia vita arrabbiata tra fede e morte

Il mio rapporto con la Morte. Io odio la Morte. L’aborro più della sofferenza, più della perfidia, della cretineria, di tutto ciò che rovina il miracolo e la gioia d’essere nati. Mi ripugna guardarla, toccarla, annusarla, e non la capisco. Voglio dire: non so rassegnarmi alla sua inevitabilità, la sua legittimità, la sua logica. Non so arrendermi al fatto che per vivere si debba morire, che vivere e morire siano due aspetti della medesima realtà, l’uno necessario all’altro, l’uno conseguenza dell’altro. Non so piegarmi all’idea che la Vita sia un viaggio verso la Morte e nascere una condanna a morte. Eppure l’accetto. Mi inchino al suo potere illimitato e accesa da un cupo interesse la studio, la analizzo, la stuzzico. Spinta da un tetro rispetto la corteggio, la sfido, la canto, e nei momenti di troppo dolore la invoco. Le chiedo di liberarmi dalla fatica d’esistere, la chiamo il regalo dei regali, il farmaco che cura ogni male. Tra me e lei c’è un legame fosco ed ambiguo, insomma. Un’intesa equivoca e buia. Ed è quel legame che scorgo nel volto, negli occhi, di Giobatta. Quell’intesa. Nel suo caso, esasperata dalla dimestichezza che con la Morte ebbe fin da bambino. E, forse, acuita dalla consapevolezza di fornirle presto una doppia vittoria.

C’ERA UNA VOLTA L’AMERICA
Durante la settimana che precedette la fuga da New York si studiò tutto. Raccolse tutti gli elementi, esaminò tutte le difficoltà, e in base ad essi organizzò il viaggio con lo scrupolo anzi il distacco d’uno stratega che prepara una battaglia difficile. Il problema dello scotennamento, per incominciare. Appena scoprì che agli indiani gli scalpi piacevano biondi, infatti, concluse che la difesa migliore stava nel non avere capelli. Cioè nel rasarsi a zero prima di salire sulla diligenza. Così comprò una parrucca per coprire la futura calvizie. Nera, s’intende, e poco invitante. Quello della rivoltella con cui difendersi dagli attacchi, per continuare. Appena lesse che l’Overland Mail Stage-Coach raccomandava ai passeggeri di andare armati, comprò una Smith-Wesson a sette colpi e un bel pacco di proiettili nonché un pugnale che avrebbe sollevato l’invidia dell’intero Five Points: il quartiere dei criminali. Allarmata dai cinquantasei figli di Brigham Young e dai sessantacinque del suo luogotenente Heber Kimball, si procurò pure le pillole di Madame Restell: rimedio allora in uso per non restare incinta. Poi si occupò del resto. Del denaro depositato presso l’American Exchange, ad esempio. Lo convertì in banconote o monete d’argento o spiccioli, e per ridurre al minimo il rischio di venir derubata si cucì una cintura con due sacchetti da nascondere nelle mutande. Infine preparò la valigia che non doveva superare le venticinque libbre e per la quale bisognava dunque eliminare il superfluo: le crinoline, i cappellini, gli ombrellini, gli abiti con lo strascico, le scarpe col tacco. Al loro posto una valigetta, due o tre gonne che arrivavano alla caviglia, un paio di corpetti, una coperta di lana per ripararsi dal freddo notturno, più un completo da uomo. Pantaloni, giacca, camicia, e stivali. E niente ripensamenti, niente incertezze, niente sensi di colpa verso i due ingenui amici che continuavano a non capire e che invano le chiedevano dove sarebbe andata.

***

La minaccia si concretizzò a cento chilometri da Fort Laramie, nella vallata che conduceva a Fort Casper poi alle Montagne Rocciose. Ventisei ombre a cavallo, in fila sul crinale d’una delle colline che ondulavano il paesaggio cambiato, ed ogni ombra la sagoma d’un uomo che portava un fucile o un arco accompagnato dal sacchetto di frecce. Immobili come statue, però: quasi intendessero solo guardare o non avessero alcuna voglia d’assaltare una carrozza che portava un pugno di sanguisughe e basta. Infatti il conduttore si limitò a indicarli col dito. «Up there, laggiù». Il tenente, a mobilitare i dieci soldati sul tetto. «On guard, in guardia». Il cocchiere, a schioccare con maggior forza la sua lunghissima frusta. «Haiah go! Haiah, go! Gooo!» E malgrado i discorsi uditi i passeggeri non si innervosirono più del necessario. Del resto al tramonto le ombre si dileguarono e per pura cautela, durante la notte, Anastasìa tenne la sua Smith-Wesson in mano. Rifiutò d’ascoltare il tenente che ripeteva: «Try to sleep, cerchi di riposare, Miss Demboska. It was a false alarm, è stato un falso allarme». Il guaio è che quella era la tecnica degli Arapahos: mostrarsi da lontano, spaventare, sparire cioè aspettare che lo spavento passasse, quindi riapparire e scagliarsi. L’attacco si svolse all’alba. Improvviso, feroce. E questo posso ricostruirlo con esattezza grazie al racconto che il nonno Antonio forniva per farsi perdonare la sua discussa passione, dimostrare d’aver amato una donna eccezionale. Sbucarono dalle rocce dietro le quali s’eran nascosti la sera avanti, diceva. Un inaspettato avanzar di corpi seminudi, di capelli al vento, di volti tatuati con strisce di vernice rossa o gialla o verde. (Arapaho significa tatuato). Li guidava un guerriero che in testa esibiva due corna di bufalo, al collo un mazzo di scalpi (lo stesso Caldaia Nera?), e cavalcavano senza la sella. Spesso, addirittura senza toccare le briglie perché imbracciavano già il fucile o l’arco. Ululando strani suoni si lanciarono all’inseguimento della diligenza che invano rispose con un crepitìo di colpi, invano raddoppiò la velocità, e presto la raggiunsero. Incominciarono a seviziarla col sistema del batti e fuggi. Hit-and-run. Dopo averla raggiunta la circondavano, scaricavano i fucili o scoccavan le frecce, tentavano di fermarla, poi incuranti delle proprie perdite si allontanavano. Andavano a nascondersi di nuovo, riprendere fiato, e appena riposati tornavano.

LA RELIGIONE DIFFICILE
...castità coniugale, insomma rari e sbrigativi amplessi riservati solo alla procreazione. Ripudio di qualsiasi piacere, qualsiasi gioia, qualsiasi divertimento o lazzo o risata. Nonché cieca obbedienza a un frate detto Padre Visitatore che allo scader del mese gli piombava in casa per controllare se praticassero l’umiltà, la carità, la frugalità, la pazienza, l’amore per gli animali predicato da San Francesco. O verificare se portassero il cilicio, se indossassero abiti dimessi e color cenere completati dal cingolo, se rifiutassero le cattive compagnie, i discorsi indecenti, le canzonacce, i balli, le veglie, le fiere, la carne proibita il mercoledì e il venerdì e il sabato e gli altri giorni stabiliti, infine se eseguissero le opere di misericordia imposte dalle bolle papali. Ad esempio convertire i traviati, segnalare i miscredenti, denunciare i confratelli rei di qualche fallo ma restii ad accusarsi. E guai a chi sgarrava. Dopo un triplice ammonimento finiva espulso col seguente anatema: «Che Dio ti maledica, ti maledica, ti maledica». Tutte regole alle quali Luca e Apollonia si piegavano come un soldato si piega alla disciplina militare: sorretti da una fede sincera e convinti che non esistesse altra via per guadagnarsi il Paradiso o almeno il Purgatorio. Infatti a cinquant’anni Luca sembrava un vegliardo, la sua barba lunga fino a metà stomaco era già bianca, a quarantasei anni Apollonia sembrava ancor più vecchia del marito e, confessandosi, nessuno dei due trovava peccati da denunciare fuorché quello d’aver generato un ribelle. Gaetano, il primogenito, lo stesso. Il suo ossequio alle regole dell’Ordine era così profondo che a ventitré anni ne dimostrava quaranta, il suo fervore religioso così eccessivo che molti lo credevano scemo, e la sua esistenza così ascetica che in paese lo chiamavano Leccasanti. Quanto alla terzogenita, la diciassettenne Violante, non pensava che a farsi monaca e anche nella morte ravvisava un dono dell’Altissimo. L’anno precedente era morto Aloisio, il fratellino di quattordici anni. Era morto in modo crudele, ucciso da un’indigestione di fichi divorati per placar la fame accumulata con il digiuno quaresimale, e invece di piangere lei aveva sorriso. «Grazie, Signore, d’averlo accolto fra gli angeli». Lui, invece, no. Aveva pianto tutte le sue lacrime e quasi cavato gli occhi al Padre Visitatore che, in sintonia con la sorella già presa a schiaffi per il ringraziamento, era venuto a consolarli con queste parole: «Esultate, esultate, che è volato in cielo prima di commettere colpe gravi». Del resto lo odiava a tal punto che gli bastava vederlo scendere da Vitigliano di Sopra per arrabbiarsi. «Eccolo, l’aguzzino! Eccolo, lo scalognatore!» E inutile sperare che cambiasse, che diventasse pure lui terziario. Aveva in orrore il cilicio, a sentir dire il Rosario si addormentava, i dodici Pater e i dodici Ave col Gloria e il Requiem aeternam non li recitava, a parlargli di penitenze o astinenze perdeva la testa e la Messa la ascoltava soltanto di domenica sbuffando. «Proprio perché vi voglio bene e se non ci vengo vi dispiace!» Inoltre cercava il divertimento in qualsiasi cosa, lavoro incluso, andava a veglia da chiunque lo invitasse, correva a ogni fiera e infrangeva il precetto francescano, nonché la legge che vietava ai contadini di andare a caccia, facendo strage di animali che catturava con le reti o le trappole o le tagliole. Lepri, fagiani, conigli selvatici, e in particolare volpi che vendeva al mercato di Greve dove lo chiamavano Rubacuori perché malgrado la statura un po’ bassa era davvero attraente.

UN ANTENATO RIVOLUZIONARIO
Il nonno Augusto dava la colpa a Garibaldi. Salpato da Genova per andare a Palermo e accendervi l’insurrezione con settantasette legionari e Anita, il 24 ottobre Garibaldi si fermò infatti a Livorno. O meglio, nel porto di Livorno. Per caricare acqua, sostengono alcuni. Per congratularsi con gli autori dell’inferno che aveva portato la sinistra al potere, sostengono altri. Per saggiare l’opportunità di recarsi a Firenze, chiedere a Montanelli e a Guerrazzi la guida dell’esercito toscano, sostiene un pettegolezzo custodito negli archivi. Qualunque fosse il motivo, i livornesi ne furono immediatamente informati. Sventolando le bandiere rosse corsero alla nave, urlando scendi-cittadino-generalescendi lo supplicarono di sbarcare, e dimentico dei siciliani lui sbarcò. Insieme ad Anita e ai settantasette legionari si lasciò condurre all’Hotel delle Isole Britanniche in via Grande dove Carlo Ponce Rum lo persuase ad arringare la folla, e di lì in via Borra: a casa del ricco commerciante Carlo Notary che volle ospitarlo. Osannato e protetto da sedici guardie del corpo fornite dal Bartelloni, ci rimase una settimana a Livorno. E tra i sedici c’era un giovanotto con la faccia bendata che dal suo fianco non si staccava un istante. No-no, a-dormire-io-non-ci-vado. No-no, di-riposare-ionon- ne-ho-bisogno. Sicché, una fatale mattina...

«Chi sei, ragazzo, come ti chiami?»

«Cantini Giovanbattista, cittadino generale».

«Che t’è successo alla faccia?»

«La vampata d’un Congrève a Curtatone, cittadino generale».

«Por dios, eri nella battaglia del 29 maggio!»

«Signorsì, cittadino generale».

«Bravo, por dios, bravo. Eri anche nei tumulti di quindici giorni fa?»

«Signorsì, cittadino generale. E nella rivolta d’agosto-settembre».

«Bravo, por dios, bravo. Sei un fior d’italiano, Cantini Giovanbattista. Continua così. Non mollare».

Poi gli strinse la mano, lo abbracciò, e ogni volta che raccontava l’episodio il nonno Augusto mugugnava: «Colpa sua, colpa sua. Fu quel discorso a fotterlo. Del resto son sempre quei tipi lì che fottono i Giobatta».

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