La banca della 'ndrangheta «Affari con gli imprenditori»

Con l'usuale understatement dei malavitosi, dicevano di Giuseppe Pensabene che era «come la Banca d'Italia». Non male, per il presunto boss di una cosca brianzola della 'ndrangheta. Ma Pensabene - detto anche «il Papa» o «il sovrano» - in effetti sapeva fare di conto piuttoso bene. Era lui, infatti, «l'ideatore, direttore e gestore delle complesse operazioni finanziarie gestite dal suo gruppo criminale». Scrive così il gip Simone Luerti nell'orinanza di custodia cautelare con cui ha mandato in carcere 34 persone considerate affiliate all'origanizzazione criminale in grado di riciclare con facilità il denaro degli imprenditori che volevano evadere il fisco, di prestare soldi e di reinvestire in aziende sane. E Pensabene è ritenuto il reggente della «locale» di Desio. Il capo. «Le sue decisioni - sottolinea in fatti Luerti - vengono sempre accettate e puntualmente eseguite da tutti gli associati».
Stando alle indagini della distrettuale antimafia, la cosca era in grado di muovere «centinaia e centinaia di milioni di euro» e di infiltrarsi nella politica. Nelle carte si parla di voti che Domenico Zema, ex assessore in un comune della Brianza e uno dei presunti capi della locale di Desio, avrebbe portato all'ex assessore regionale Massimo Ponzoni, così come era avvenuto per l'ex assessore Domenico Zambetti, già arrestato per voto di scambio con le cosche. Ma la 'ndrangheta lombarda «ha pensato bene anche di mettersi in proprio come struttura che gestisce un'attività finanziaria illecita di proporzioni davvero notevoli ed impressionanti, istituendo una sua propria banca clandestina, che le consente di gestire e accumulare ingentissimi capitali delittuosi, e di allargare e rafforzare il suo già notevole potere sia in termini economici sia in termini di condizionamento più prettamente mafioso, e di assumere, infine, il controllo della gestione di diverse aziende e di patrimoni immobiliari di elevatissimo valore».E Pensabene sapeva come fare. Intercettato nel suo ufficio di Seveso, il presunto boss invitava gli affiliati a infiltrarsi «come polipi» che «si devono agganciare dappertutto, i tentacoli devono arrivare dappertutto, ci sono le condizioni per poterlo fare». Spiega il giudice che l'organizzazione mafiosa «si è avvalsa di numerose società non soltanto in Italia ma anche all'estero, ha esportato parte dei capitali illeciti accumulati in Svizzera e a San Marino, ha investito cospicue somme di denaro (...) anche nelle attività economiche della società nautica Italianavi srl, proprietaria di alcuni cantieri a Viareggio (...) e del settore energetico come la Eg Power Milano Est», ha erogato «prestiti a tassi usurari a imprenditori e commercianti lombardi», mentre nessuna delle vittime di usura «ha mai presentato denuncia all'autorità giudiziaria».

Insomma, «un intenso e disinvolto connubio tra forme evolute di associazioni mafiose e imprenditori calabresi e lombardi, pronti a fare affari illegali insieme come se niente fosse». È la «nuova mafia», dice il giudice. Ormai una vecchia storia.

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