In mostra «Light project» di Nanda Vigo la sua prima retrospettiva antologica

Luci, specchi, forme. E la colonna sonora scelta dall'artista e architetto

Francesca Amè

«E meno male che sono ancora viva», dice Nanda Vigo, passo incerto (ma scarpe argento), mentre si aggira per le sale di Palazzo Reale: è soddisfatta di questo «Light Project» (fino al 29 settembre, ingresso libero) che è la prima retrospettiva antologica a lei dedicata da un museo pubblico. Nanda Vigo se la gode, ma vi ha lavorato instancabile, nonostante gli 83 anni fino all'ultimo: artista ed architetto perfezionista, ha scelto persino la colonna sonora dell'ultima sala, un tappeto musicale che va da Moby al tema di Star Trek, avveneristico e suadente come la sua arte.

Che il «progetto di luce» di Nanda Vigo abbia stravolto il primo piano di Palazzo Reale si percepisce immediatamente: all'ingresso l'infilata di saloni è avvolta da toni bluette, viola, bianco e azzurro. Milano omaggia la grande sacerdotessa del Gruppo Zero, l'amica e compagna di Piero Manzoni, la sodale di Lucio Fontana, Gio Ponti, Bruno Munari. Donna dal carattere forte, Nanda Vigo: «Ho lavorato il doppio dei miei colleghi maschietti dice testualmente per arrivare dove sono giunta» e questa serena consapevolezza del proprio valore trasuda anche dall'insieme di opere, circa un'ottantina, magnificamente installate. Si potrebbe anche attraversare la mostra giocando solo alla seduzione superficiale (che c'è, ed è notevole): si passeggia da una sala all'altra, ci si specchia negli spigolosi frammenti che Nanda Vigo pare aver lasciato quasi per caso (ma ovviamente non è così), ci si immerge in ambienti pieni di luci e di forme, il triangolo, il cerchio, il quadrato. Tutto è dinamico, tutto è luminoso: Nanda Vigo è capace di portare chiunque in un'altra dimensione. Tuttavia, c'è molto altro che vale la pena osservare e sapere: Vigo, una laurea in architettura a Losanna, figlia del meglio della borghesia meneghina, dopo un periodo in America alla «corte» (è proprio il caso di dirlo) di Frank Lloyd Wright, se ne torna a Miano: sono gli anni Sessanta in cui in città Manzoni e Castellani lanciano il Gruppo Azimuth, Lucio Fontana è generoso maestro, l'ironia di Murani pervade l'ambiente culturale e c'è un genio come Gio Ponti che sulla sua «Domus» dà risalto ai talenti di Brera. Dopo la prematura morte di Manzoni, Nanda Vigo aderisce al Gruppo Zero che allora animava la scena europea: l'arte, nonostante tutto, è leggerezza, libertà, purezza. Sono di quegli anni i suoi primi «cronotopi», ovvero spazi in cui si concentra il tempo (cronos) e il luogo (topos). Tecnicamente, si tratta di strutture metalliche dentro le quali Vigo lavora dei vetri industriali: all'inizio sono di media dimensione poi si trasformano in veri e propri ambienti fisici. Una delle esperienze più suggestive della mostra si compie nella sala degli specchi dove è possibile entrare in una di queste «scatole» e lasciarsi, solo per qualche minuto, incantare dai vetri che mutano cromia. Alternando lavori storici a realizzazioni recenti (come il delizioso «Galactica Sky», del 2015) Vigo dimostra di non aver perso la sua forza evocativa. Basterebbe come suggerisce Marco Meneguzzo che ha curato la mostra osservare i titoli dei suoi lavori: «Deep Space»; «Galactica», «Light Progresessions». L'arte di Nanda Vigo ci riporta a una visione positiva ed energica del futuro: le sue visioni di luce negli ultimi anni tendono al blu, pulsano quasi fossero stelle di galassie lontane.

Il paesaggio che ci regala è fatto di installazioni di vetri a cuspide e taglienti: in questo nostro strano mondo, così difficile e duro, l'artista suggerisce di cercare il proprio «cronotopo», il posto con la luce giusta, per incamerare la necessaria serenità per pensare all'altrove. Una lezione di struggente profondità etica.

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