Da Prada i tesori di Vienna scelti dal regista Anderson

L'artista e la compagna Malouf curatori della mostra Esposte 537 opere. C'è pure il mini-sarcofago per topo

Francesca Amé

Che frenesia c'è stata davanti alla Torre dorata della Fondazione Prada per le sfilate, per la settimana della moda. Ma in perfetta (e voluta?) antitesi - a quei ritmi - ha aperto Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori (viale Isarco, fino al 13 gennaio), una mostra, anzi un esperimento creativo di quel genio del cinema che è il regista Wes Anderson l'americano è di casa, in Fondazione: gli arredi del Bar Luce, un must del ritrovo meneghino in zona Scalo Porta Romana, portano la sua firma insieme alla compagna, l'illustratrice, designer e scrittrice libanese Juman Malouf. Che cosa sarà mai questo sarcofago? Trattasi di una scatoletta di legno del IV secolo a.C. ritrovata in Egitto: è il mini-sarcofago per una mummia di toporagno e una delle 537 opere d'arte ora esposte negli spazi del piano terra del Podium, all'ingresso della Fondazione.

Trovarlo ve lo diciamo subito fa parte del gioco, perché l'esposizione si presenta come una raffinata e divertente caccia al tesoro, allestita dai due artisti per il pubblico e per loro stessi. Parliamo di tesori veri, provenienti da ogni parte del mondo e selezionati, in collaborazione con il Kunsthistorisches Museum di Vienna, tra i pezzi delle dodici collezioni della celebre istituzione asburgica e dai dipartimenti del Naturhistoriches Museum della capitale austriaca. I due musei, fondati nel 1891 e detentori di qualcosa come 4 milioni di opere il primo e 20 milioni di oggetti il secondo, rappresentano ciò che c'è di più lontano dalla nostra epoca usa-e-getta dove tutto si guarda, si fotografa, si posta su Instagram e si dimentica in fretta. Qui invece si omaggia il piacere lento dell'arte: scopriamo una Wunderkammer, una camera delle meraviglie, allestita con pannelli e teche in un percorso armonico, che ricalca le forme geometriche del giardino all'italiana. Tutto segue una logica, ma non quella che ci aspetteremmo. Anderson e Malouf mettono in scena la loro idea di bellezza, un viaggio per associazioni temporali e geografiche che se ne infischia delle «etichette» (niente didascalie in mostra: fondamentale il libretto-guida in distribuzione). Può capitare allora che il pezzo forte sia, appunto, il mini-sarcofago di un topo o il ritratto seicentesco di Maria Cristina d'Austria, di verde vestita, accostato all'abito di Helda Gabler, l'omonimo dramma di Ibsen.

A spulciare l'elenco degli oggetti si trovano capolavori quali il Giovane uomo con corta barba di epoca romana, il Ritratto di Isabella d'Este di Rubens, l'Ettore di Sassonia di Tiziano, il Ritratto di Lutero di Cranach. Il consiglio è, tuttavia, di muoversi seguendo la propria emozione, di soffermarsi dove lo esige la propria curiosità. Si comincia da una sala dominata da oggetti verdi (da Cina e Indonesia, accostate alla ceramica italiana del Seicento) e, poco distante, si para alle pareti una galleria di ritratti cinquecenteschi (tra cui la serie, anonima e grottesca, di una famiglia «irsuta»). C'è poi la saletta con i ritratti dei bambini, quella con busti, di età classica e moderna. Ancora, in ordine sparso: la vetrina dove si viaggia (barchetta inuit, amuleti italici, contenutori congolesi, una valigia d'artista alla Duchamp) e accattivanti le pareti dedicate al mondo animale, tra cui spiccano un gatto settecentesco a un vascello a forma di polipo proveniente dal Perù. Dal 3000 a.C. a oggi, che immaginifico mondo ci si para davanti: oggetti naturali (spugne, meteoriti, uova di animali), mirabilmente accostati per colore o forma a sculture, dipinti e terracotte da ogni latitudine diventano nature morte, non più meri reperti scientifici. Si esce storditi da tanta bellezza.

Anderson e Malouf dimostrano che ogni museo, non importa quanto grande e importante, vive delle nostre libere associazioni. L'arte, anche quella che viene collezionata in teche polverose, è contemporanea al nostro cuore.

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