Barbara SilbeDaniele Tamagni è l'autore con il quale inauguriamo questa serie di interviste ai fotografi che vivono e lavorano a Milano. Il suo percorso inizia con lo studio della storia dell'arte e della conservazione dei beni culturali, ma il bisogno di raccontare la gente lo ha poi portato verso la fotografia, creando un'ottima combinazione di linguaggi. Da qualche anno è impegnato a documentare le «controculture» nel Sud del mondo e le sue immagini in bilico tra moda e arte gli e hanno fatto vincere importanti premi come il World Press Photo, il Canon Young Photographer Award, l'ICP Infinity Award.Ora ha pubblicato un nuovo libro dal titolo «Fashion Tribes» in due edizioni (inglese e francese): «Avevo provato a proporre una pubblicazione anche in Italia, ma non ho ricevuto proposte. Si è invece fatto avanti l'editore francese Dominique Carrè delle edizioni La Decouverte che, trovando il sostegno di un partner americano (Abrams), ha pubblicato libro nelle due lingue. In programma per marzo l'edizione giapponese».Come è nata l'idea di questo libro?«Il seme fu gettato diversi anni fa con Els Van derPlas, ex direttrice della Prince Claus Foundation ad Amsterdam dove sono state esposte le foto dei miei Sapeurs nel 2010. Els, che è anche l'autrice dell'introduzione del libro, aveva apprezzato i lavori successivi e pensava all'idea di creare diversi saggi sulla mia reinterpretazione della "moda street"». Cosa contiene e come è strutturato?«Si compone di sette progetti negli ultimi sette anni. Ogni capitolo ha un'introduzione di un giornalista, da un curatore o da un fashion editor. Ho cercato di valorizzare la potenza espressiva ed estetica delle foto, da un lato con impaginato più grande rispetto al precedente libro, dall'altro con la coerenza nell'abbinarle. Inframezzando testi desunti da mie interviste accanto alle persone ritratte, ho dato anche voce ai soggetti per contestualizzare».Le interessano le culture più marginali del mondo. Perché?«Ho sempre avuto questa passione da quando ho iniziato a collaborare per la rivista Africa dei Padri Bianchi dieci anni fa. È importante capire altre culture e adattarmi a loro, e per fotografarli occorre passare molto tempo con i soggetti. Io cerco sempre di essere me stesso; in maniera diretta, ma discreta, tento di coinvolgere le persone nel mio progetto. Credo che farsi capire sia importante e consenta di mantenere poi delle belle amicizie. Inoltre le creatività espresse in queste realtà meritano rispetto e non andrebbero più considerate marginali». Molti hanno definito il suo lavoro reportage di moda. Lei è d'accordo?«Non amo le etichette. Certo è un reportage di moda, sono racconti sulla moda a cui si alternano foto inattese a ritratti street posati dove costruisco le immagini seguendo l'ispirazione del momento. Spesso il confine è sottile, ma questo libro volevo che fosse vivo, stimolante, che ogni pagina potesse sorprendere, quindi ho alternato vari stili e approcci, mantenendo una coerenza grafica di fondo. Il colore e la luce hanno un ruolo molto importante nelle mie immagini».Lavora sempre lontano? Ci sono soggetti vicini che potrebbero interessarle?«Amo viaggiare e mi interessano le culture extra-europee, ma non disdegno le realtà locali perché un'idea forte può celarsi anche dietro casa. Il mio libro è dedicato ai contesti urbani di paesi ai margini del mondo che si stanno trasformando, ed escludeva Europa e Occidente. Quindi di fondo è il progetto che mi porta a recarmi in determinate realtà lontane, ma ho idee che vorrei sviluppare in Italia.
Ora mi concentro sui prossimi appuntamenti: il 27 gennaio presento Fashion Tribes alla Photographers Gallery di Londra; il 3 febbraio sarò a Parigi, al Museo delle Arti Decorative, per un book signing e una mostra evento in collaborazione con African Fashion Gate e infine, nella seconda meta di aprile, la presentazione e la mostra saranno alla Galleria Sozzani di corso Como 10 a Milano».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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