Orgoglio Gratosoglio. La periferia sud si risveglia come simbolo della riscossa e dell'integrazione. Mancano pochi minuti all'una e trenta di notte quando Alessandro Mahmood, 27 anni, nato a Milano da madre sarda e padre egiziano, vince il Festival di Sanremo con il brano "Soldi" e scatena lo scontro politico. Lui si tira subito fuori: "Non entro in queste polemiche, sono italiano al 100%". Ma un italiano di seconda generazione che alza il premio in Eurovisione (e quest'anno non solo) sul palco dell'Ariston si presta a diventare figurina della sinistra che anche a Milano sconta le polemiche sul rischio banlieu. «Mahmood con te ha vinto Gratosoglio, Milano e l'Italia. Ti aspetto a Palazzo Marino per congratularmi di persona» twitta il sindaco Beppe Sala. Che più tardi aggiunge: «É un bellissimo esempio di integrazione» e «la sua vittoria è un buon segno, in questo momento a Milano la musica e i suoi protagonisti funzionano. Sarò molto contento se verrà a Palazzo Marino ma vorrei che riuscissimo anche a organizzare un evento insieme per i ragazzi milanesi, magari proprio al Gratosoglio». Mahmood diventa affaire politico. Il capogruppo della Lega Alessandro Morelli mostra su Facebook la ripartizione delle quote tra televoto (14,1%) giuria tecnica e giornalisti per dire che «hanno deciso ancora le élite, ma il prossimo sarà il Sanremo della gente». E attacca: «Vedere vincere Sanremo a uno del Gratosoglio solo perché la giuria buonista vuole far politica sulla pelle di uno che è figlio di coppia mista non mi piace. Altra carne al fuoco per i servizi melensi sulle periferie, peccato che spente le luci tornano la solita giungla». La consigliera Pd Sumaya Abdel Qader aggiunge invece all'elenco dei giovani di seconda generazione milanesi che ce l'hanno fatta il rapper Ghali, nato a Milano da genitori tunisini e vissuto quasi sempre a Baggio, o Malika Ayane, padre marocchino e madre italiana, a 11 anni faceva già parte del coro delle voci bianche della Scala e la sua carriera ha fatto un bel corso. Sono solo canzonette. Lo dice in altri termini la coordinatrice regionale di Forza Italia Mariastella Gelmini. «La canzone di Mahmood può o non piacere ma le sue origini non c'entrano nulla. Per una volta parliamo di musica, non di politica».
Per il Gratosoglio è il giorno del riscatto, ma la periferia sud soffre e aspetta che il piano quartieri promesso dalla giunta Sala decolli. Sui social girano le foto del giovane Mahmood con le torri bianche alle spalle, gli ex palazzi Ligresti dove il cantante è nato e cresciuto e che sono un monumento al degrado. Per qualche sera l'anno scorso sono diventate un museo a cielo aperto, con i capolavori di Frida Kahlo proiettati sulle facciate per «Milano food city». Operazione spot. Nella «piazza senza nome» sotto le torri Aler le vetrine restano buie, colpa anche dei ricorsi, e i residenti la sera hanno paura. L'assessore regionale Stefano Bolognini ora annuncia che entro l'estate partirà la ristrutturazione delle facciate nella prima torre, la terza sarà finita entro il 2020, su uno dei tre palazzi sarà rifatto anche il tetto. Partirà a breve il bando per i negozi sfitti e «il restyling sarà esteso a vialetti e cordoli intorno, su via Baroni». Ma il problema insicurezza è forte. In via Saponaro la «casa gialla» che ospita profughi crea disagi. E un maggior presidio dei vigili eviterebbe - per dire - il senso di impunità che porta gli inquilini a «buttare» nel cortile anche divani o lavatrici. Secondo Bolognini «ora servono azioni strutturali per rendere viva la zona». Il delegato per le periferie Mirko Mazzali fa presente che l'associazionismo «qui è molto vivo, c'è un grande movimento». Segnali di luce arrivano dalla Casa delle associazioni in via Saponaro 20 o dal Teatro Ringhiera in ristrutturazione.
Ma anche don Giovanni Salatino, prete di frontiera che nel quartiere multietnico ha promosso tra l'altro il «Campus della pace», ha più volte ripetuto al Comune, anche in Commissione, che al Gratosoglio si registra un progressivo invecchiamento, i giovani non trovano lavoro e c'è una «ghettizzazione» in corso. Non un rischio, ma una realtà da affrontare.
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