Come è potuto accadere? Perché proprio in quel luogo e in quel momento? Con quei nomi, gesti, volti? Questioni immortali che da Erodoto in avanti tormentano gli storici di ogni generazione, presentandosi puntuali alle svolte della storia. Che - lo sappiamo bene - finisce sempre per ripetersi, anche se ogni volta fingiamo di sorprenderci. Poi ci sono gli anniversari, quelli in cui certe domande diventano d'ordinanza e porle in una luce diversa è affare sempre più impervio.
Ci prova, riuscendoci, la Fondazione Anna Kuliscioff con la mostra documentaria «La marcia su Roma, cento anni dopo (1922-2022)», organizzata in collaborazione con il Museo del Risorgimento e aperta dal 18 ottobre all'11 dicembre a Palazzo Moriggia (via Borgonuovo 23, mar-dom dalle 10 alle 17, ingresso gratuito). L'istantanea immortala il momento in cui, con l'incarico del Re a Mussolini di formare il nuovo governo, si realizzo il primo atto della «rivoluzione» fascista. Tra complicità, errori, silenzi e violenze prese forma la resa dello Stato liberale. «Il Regno d'Italia aveva edificato le istituzioni democratiche e garantito un periodo di crescita economica, sociale, civile. Nonostante momenti drammatici, come Adua, il '98 a Milano e l'uccisione di Umberto I, si era consolidato un modello di democrazia liberal-borghese», spiega Walter Galbusera, presidente della Fondazione Kuliscioff. La mostra si rivolge soprattutto a giovani e giovanissimi che più di altri rischiano di dimenticare ciò che è stato. Il percorso si snoda attraverso immagini, giornali, fotografie e materiale dell'epoca: si risale agli anni della guerra di Libia (1911-'12) e del congresso socialista di Ancona, con la comparsa di Benito Mussolini sulla scena politica (rari i volantini che ne sostengono la candidatura a Forlì).
La carrellata ci conduce, attraverso l'epopea «mutilata» della Grande Guerra, fino al biennio rosso 1919-'20: in vetrina riproduzioni fotografiche sugli scioperi alla Lancia di Torino, le Guardie rosse d'occupazione e l'agitazione dei ferrovieri (fine 1920), accanto ai primi pugnali con l'impugnatura del Fascio e a scritti di Matteotti e Filippo Turati. Si arriva poi ai cruciali «anni neri» (1921-'22), su cui si concentra gran parte del materiale esposto, quasi tutto proveniente da archivi, biblioteca ed emeroteca della Fondazione: immagini delle prime squadre fasciste di Pavia e Varzi e delle vittime, foto delle devastazioni alle Case del Popolo di Binasco e Trecate e della distruzione dell'Avanti in via Settala a Milano (agosto 1922), tessere del Pnf e delle guardie d'onore, discorsi, rassegne fotografiche sulla presa di Palazzo Marino, con un Gabriele d'Annunzio che, proteso al balcone, arringa la folla con il celebre «in voi vedo gioia virile e maschia allegrezza!», a due mesi esatti dalla «marcia». La scena si sposta quindi da Milano e dai retaggi sansepolcristi alla Capitale, sotto gli occhi di Vittorio Emanuele III: a ricordarlo cartoline postali, pergamene e medaglie, immagini di adunate, camicie nere e bivacchi accanto a scatti ufficiali. Chiudono idealmente il viaggio le vignette satiriche de «L'Asino», rivista fuori dal coro costretta a sospendere le pubblicazioni di lì a pochi anni. È una pagina di storia che si poteva evitare? Galbusera si sottrae alla retorica del Mussolini semplice stratega e incantatore di masse: «Certo ci fu anche quello, i nuovi mezzi di comunicazione fecero il loro. Ma il futuro duce fu appoggiato dalla maggioranza delle forze politiche di tradizione democratica come antidoto alla temuta rivoluzione bolscevica».
Quando tramontò il mito della rivoluzione era troppo tardi: «Con l'esaurirsi dell'occupazione delle fabbriche, la borghesia si illuse di poter dare il benservito al fascismo che nel frattempo aveva
costituito milizie armate. Nelle istituzioni statali era diffuso un atteggiamento di indifferenza se non di consenso, non si seppe o volle trovare un'intesa di emergenza democratica con i riformisti di Turati e Matteotti».
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