Il lockdown, la compressione in stati ristretti, la rinuncia alla socialità non possono costituire gli alibi per il dilagare della violenza giovanile nel tessuto urbano milanese: perché siamo davanti a un fenomeno nato ben prima della pandemia e con cui dovremo confrontarci anche per molti anni dopo di essa. A spiegarlo è Guglielmo Gulotta, uno dei massimi esperti italiani di psicologia forense: il terreno dove si incrociano lo studio dei comportamenti criminali e dei processi mentali.
Professor Gulotta, da settimane le cronache milanesi ribollono di episodi sconcertanti, a volte l'impressione è che le cosiddette baby gang agiscano ormai fuori da ogni controllo. Da dove nasce questo fenomeno?
«Siamo davanti a una delle due forme di aggressività adolescenziale più vistose di questi tempi. Una è il bullismo, l'altra è l'organizzazione in bande giovanili più o meno strutturate. Bullismo e gang vengono a volte vissute come facce di fenomeni analoghi, ma in realtà hanno differenze sostanziali. Il bullismo si esercita contro obiettivi noti, ed è spesso perpetrato da un soggetto singolo, magari attorniato da altri che svolgono una funzione da coro o da claque. Le gang, invece, sono alimentate dalla coesione collettiva e colpiscono indiscriminatamente».
Qual è la molla che le spinge in azione?
«Una risposta ci viene dalla modalità stessa con cui veniamo a conoscere le loro azioni: questi ragazzi pubblicano per vanteria sui mass media e sui social le loro imprese che altrimenti resterebbero a volte sconosciute. La definirei trasgressione ludica. Poi, ovviamente, c'è dell'altro».
Ovvero?
«Sicuramente la conquista di beni materiali di consumo che sono fuori dalla loro portata e che hanno una forte valenza di status: dai telefoni ai capi di abbigliamento. D'altronde si tratta di bande urbane di vario tipo e dalla composizione quanto mai variabile, perché ne fanno parte sia ragazzi nati nella nostra cultura che di culture differenti, ma accomunati quasi sempre dalla provenienza da classi sociali disagiate. In loro la conquista dell'oggetto-feticcio si accompagna a una voglia di riscatto e diventa una sorta di reazione ai trattamenti ingiusti, o presunti tali, che ritengono di aver subito dalla società degli adulti».
Nelle analisi di questi giorni molti hanno indicato il disagio da lockdown come fattore detonante.
«Adesso la pandemia ha la colpa di tutto... Certo, dopo la fine del lockdown abbiamo avuto la percezione di una impennata, ma da qui a fare di un dato temporale anche un dato causale ce ne corre. Questo è un problema che nel mondo esisteva da ben prima del lockdown».
Che rapporto hanno con le regole? Trovano soddisfazione nel violarle o semplicemente le ignorano?
«Tutti noi violiamo le regole continuamente, perché se le applicassimo rigidamente il mondo si fermerebbe. In questi ragazzi c'è sicuramente qualcosa in più: la trasgressione della regola diventa un valore in sé, un motivo d'orgoglio, una conquista da esibire. Anche a costo di essere identificati e pagarne le conseguenze».
La dinamica è la stessa anche quando l'aggressività della banda prende di mira soggetti deboli come le ragazze? Le scene di Capodanno sono inquietanti.
«In parte sì, purtroppo. Quello che è andato in scena in piazza Duomo è stata una serie di episodi connotati, e lo dico con mille cautele e tra mille virgolette, anche da un aspetto ludico. Tra le regole che si possono violare in nome della trasgressione, c'è stata anche quella del rispetto per l'altro sesso. Le aggressioni sono state rese possibili da un meccanismo psicologico classico dell'agire di gruppo, la dispersione della responsabilità: più siamo e più si può fare, come se la responsabilità finisse tutta a un soggetto che agisce collettivamente e non ai singoli che ne fanno parte.
E alla fine la soddisfazione del piacere sessuale non è diversa dalla gratificazione del rapinare un oggetto di lusso: hai delle spinte che non puoi soddisfare individualmente, la forza e la confusione ti convincono di poter fare quello che a quattr'occhi non oseresti».
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