Il mistero di al Mansur Profeta o impostore?

Un saggio della slavista Serena Vitale sulla leggenda di Giovan Battista Boetti

Quando decise di celebrare i duecento anni dalla scomparsa del suo cittadino più illustre, l’amministrazione comunale di Camino, Basso Monferrato, gente cresciuta a Grignolino, Barbera e fritto misto, volle invitare una delegazione del Paese che aveva storicamente condiviso l’avventura di Giovan Battista Boetti, il religioso che, dalla piccola frazione di Piazzano e dopo lunghe peregrinazioni, raggiunse addirittura le steppe desolate della Russia centrale, dove divenne immediatamente il leader di quelle popolazioni.
A sintetizzarne la storia quasi incredibile, sulla facciata che dà nel cortile della sua casa natale, un cascinale del Settecento che sorge davanti a una chiesetta, è una epigrafe: «In questa casa nacque il 2 giugno 1743 Giovan Battista Boetti, che sotto il nome Profeta Mansur, Sheikh-Oghan-Oolò, alla testa di ottantamila uomini, conquistò l’Armenia, il Kurdistan, la Georgia e la Circassia e vi regnò per sei anni qual sovrano assoluto. Morì nel 1798 a Solowetsk nel Mar Nero». Per don Perpetuo Damonte, il canonico della chiesa di Piazzano che quella lapide volle nel 1882, la precisione geografica, toponomastica e cromatica - Solowetsk è infatti sul Mar Bianco e non sul Nero - dovevano essere solamente dettagli, tanta era invece l’ammirazione per quel frate domenicano monferrino che facendosi chiamare Al Mansur («Il Vittorioso») aveva dato anche vita a una religione sincretistica basata su elementi cristiani e musulmani.
Ma a raffreddare gli entusiasmi per le celebrazioni del duecentenario furono proprio i ceceni ospiti a Camino. «Giù le mani da Mansur, che è un eroe nazionale nostro - dissero -. Non ha nulla a che vedere con il vostro Boetti. È come se vi dicessimo che Garibaldi era ceceno. Per noi Mansur è una sorta di Robin Hood del Caucaso. Tanto è vero che nel 1991 - quando la Cecenia tentò di proclamare la propria indipendenza mentre si andava sgretolando l’impero sovietico - la piazza dedicata a Lenin, nel centro della capitale Grozny, venne ribattezzata con il nome di piazza Al Mansur».
Secondo i caucasici, dunque, «questo Osama Bin Laden del diciottesimo secolo» (definizione dell’ex ambasciatore Sergio Romano) non era dunque l’ex frate domenicano piemontese Giovan Battista Boetti, ma un pastore ceceno che per circa sei anni combatté contro i russi in una lotta che ebbe fine nel 1791, quando i russi, ormai vincitori nei confronti dei turchi, riuscirono a catturarlo. La leggenda vuole che la zarina Caterina, colpita da ciò che si raccontava di lui e del suo coraggio in battaglia, accettò di vederlo e non può dirsi che lo trattò come un prigioniero qualsiasi, forse soggiogata - secondo alcuni biografi - dal fascino e dalle innegabili doti amatorie del religioso guerriero.
In ogni caso, anche se non inconfutabilmente documentato che Boetti fosse «Il Vittorioso», è di certo poco credibile la tesi (anzi, la pretesa) che Mansur fosse un ceceno all’incirca ventenne, pastore e totalmente analfabeta, conoscitore a memoria solo di qualche versetto del Corano. Più plausibile che i Mansur di cui si sono occupati storici e memorialisti siano stati più di uno. E, tra questi, con ragionevole probabilità anche il frate monferrino che le storie raccontano «vestito di abiti bizzarri per le vie di Torino».
Chiunque fosse, la vita di questo avventuriero e carismatico fondatore di una nuova religione capace di organizzare in uno stato teocratico i territori dell’Armenia, del Kurdistan, della Georgia e della Circassia, prima di essere sconfitto dall’esercito della zarina, continua a essere un enigma e ad affascinare gli storici e i ricercatori. Ne è rimasta colpita anche Serena Vitale, docente di Lingua e Letteratura russa all’Università Cattolica di Milano, celebre slavista, grande traduttrice, autrice di due libri superpremiati (Il bottone di Puškin e La casa di ghiaccio. Venti piccole storie russe). Alle tante facce di Sheikh Mansur ha dedicato le 400 pagine del suo ultimo lavoro: L’imbroglio del turbante (Mondadori, euro 18,50).
«Uno scritto», lo definisce lei. Non un saggio, «ma la lunga e ossessiva ricerca di un personaggio che continuava a sfuggirmi, nascondendosi dietro tutti gli angoli dell’Europa, dell’Asia». È lei stessa a chiedersi di Boetti: «L’ex missionario piemontese era davvero l’Imam che la Cecenia indipendente celebra come eroe nazionale? Se non lo era, perché lo divenne nella leggenda?». Nel cercare di dare una risposta a queste domande, ecco che nasce l’ossessione tramutata poi in romanzo, «un romanzo multiplo, come certe sale cinematografiche: su Boetti, sulla Russia durante l’“età aurea” di Caterina la Grande, sull’Impero Ottomano all’alba del suo lento declino, sul Caucaso... Un romanzo - forse - sulla possibilità stessa di raccontare, oggi, la storia».
Raccontarla con la precisione anche filologica dello storico che già dal titolo, appunto L’imbroglio del turbante, dichiara il proprio scetticismo nei confronti dell’avventuriero piazzanese diventato domenicano e missionario in Mesopotamia, il carismatico «frate brigante che voleva unire croce e mezzaluna» (definizione dello storico Franco Cardini) trasformatosi per le sue molteplici esperienze in profeta alla Festa di un Islam che intendeva opporsi militarmente - con i mezzi di cui riusciva a disporre - alla potenza bellica della Russia.
Quella del Mansur di Sara Vitale non è la storia di un santone con il dono dell’ubiquità. Ma quella, rigorosamente documentata, dei Mansur che hanno attraversato quella parte di mondo, riuniti sotto un unico nome ancora oggi oggetto di venerazione da parte di quelle popolazioni. Storia e storie di terre lontane e sconosciute, di guerrieri, avventurieri, imperatori, diplomatici, spie e impostori la cui vita si srotola tra amori, battaglie e colpi di scena.
Del resto, lo stesso Cardini sintetizza così l’epopea di Giovan Battista Boetti: «Parlava dodici lingue, compreso arabo, circasso e azero. Agente del sultano, dello shah, della zarina, del re di Francia, della repubblica di Venezia, li tradì tutti. Fu falso medico, guaritore, spia, seduttore libertino; e, col nome di “Profeta Mansur”, fondatore di una nuova fede che fondeva cristianesimo e Islam. Visitò Libano, Siria, Kurdistan, Armenia, Georgia, Persia. Sognava di guidare una libera confederazione di stati caucasici: ma fu un crudele, tirannico capo-brigante.

Morì deportato in un convento ortodosso su un’isola del Mar Bianco».
Onestamente troppo per un persona sola. Ma questo dubbio non sfiora i ceceni che credono nel loro pastore eroe nazionale. Né i monferrini di Piazzano, frazione di Camino, provincia di Alessandria.

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