Sulle armi chimiche presenti in Siria, la BBC aveva già dato delle avvisaglie circa un mese prima del raid aereo di Damasco su Khan Sheikhoun, paese a nord-ovest di Idlib.
Infatti, in data 3 marzo, in un articolo dove si parlava dell’uso di armi chimiche a Mosul, la BBC scriveva che la fabbricazione di armi chimiche da parte di Daesh e costellazione qaedista era stata più volte segnalata dalle autorità militari e l’utilizzo delle stesse confermato a più riprese da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Non ultimo il lancio di bombe contenenti i cosiddetti gas mostarda verso truppe americane stanziate nella base aerea di Qayyarah vicino la stessa Musul. Inoltre, durante un’intervista a al-Mayadeen TV(precedente ai bombardamenti a Khan Sheikhoun), il vice-ministro degli esteri siriano, FaIsal Mikdad, ha dichiarato che già da tempo aveva allertato l’OPCW (acronimo di Organization for the Prohibition of Chemical Weapons) del fatto che gruppi legati alla galassia jihadista erano in possesso di armi chimiche. La zona soggetta al bombardamento è, per l’appunto, sotto il controllo dei qaedisti di Fatah al Sham, coadiuvati da organizzazioni quali Uossm e i White Helmets (la prima è una ong che si occupa di assistenza medica in situazioni di crisi, i secondi sono la “protezione civile” dei ribelli siriani).
Il contenuto dell’articolo della BBC rafforzerebbe quanto sostenuto da Mosca e Damasco circa gli eventi dello scorso 5 aprile: che i raid aerei siriani contro i ribelli qaedisti hanno colpito un deposito adibito allo stoccaggio e fabbricazione di colpi da mortaio con ogive chimiche (già utilizzati in diversi scenari in Siria, tra l’altro). Il sarin o gas nervino è facilmente sintetizzabile tramite processo di transesterificazione, dunque il suo possesso non è esclusivo di nessuna élite militare tecnologicamente avanzata. Non solo questo elemento: anche il fatto che la Siria avesse già consegnato il suo arsenale chimico è un indizio che i giornali hanno subito dimenticato di considerare, soprattutto quelli nostrani che per settimane hanno imbastito polemiche circa l’attracco della nave con le armi chimiche siriane al porto di Gioia Tauro. Non ultima la spiegazione razionale e quella strategico-militare: non ha alcun senso utilizzare delle armi proibite proprio nel momento in cui si sta vincendo la guerra e non ha senso (sotto)utilizzarle per causare un così esiguo numero di morti. Come molti hanno già detto, un tale comportamento sarebbe stato, per Assad come spararsi su un piede. Certo è che se i vertici militari siriani sapevano in anticipo che in quel sito si fabbricavano armi chimiche e hanno comunque avviato un bombardamento aereo è stato un po’ come spararsi se non sul piede, per lo meno sull’alluce.
Quanto è avvenuto ha suscitato la reazione unilaterale di Trump che consultando solo i suoi più stretti collaboratori ha lanciato 59 missili da crociera Tomahawk (di cui solo 23 hanno colpito il bersaglio) come rappresaglia verso la base aerea di Shayrat (Homs); Washington ha avvisato preventivamente sia Assad che Putin che hanno così avuto l’opportunità di evacuare la base aerea salvando il salvabile. Il presidente russo, condannando l’irresponsabilità dell’azione statunitense, ha chiesto una convocazione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in quanto questo atto rappresenta un’aggressione contro un altro stato membro. Dall’altro lato della barricata l’azione ha avuto la compiacenza di Italia e Germania e l’appoggio non solo di Gran Bretagna e Francia ma anche di Arabia Saudita, Turchia e Israele, con cui pare che il Segretario di Stato Rex Tillerson stia creando un’altra coalizione di volenterosi per porre fine alla guerra civile siriana (un indizio in questo senso è sicuramente il fatto che alcuni Paesi hanno convocato i propri Consigli Supremi di Sicurezza, benché per l’Italia fosse già previsto da lunedì). Un altro attore che ovviamente plaude all’azione americana è il Daesh che si prepara a una offensiva verso Homs proprio partendo da quella zona.
Il bombardamento della USS Ross e della USS Porter rientra nell’ambito delle “azioni dimostrative” in quanto i danni arrecati sono limitati a una parte della base aerea (è rimasta intatta una pista e qualche hangar). Infatti, per compromettere in maniera decisiva l’apparato bellico siriano è necessario un numero di missili almeno cinque volte più alto di quello impiegato. L’episodio, come ha già dichiarato il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ricorda molto l’inizio della guerra in Iraq ma con una situazione sul campo radicalmente diversa in quanto intervenire in Siria vorrebbe dire pestare i piedi a Russia e Iran.
Quanto dimostrato dall’attacco statunitense è che il suo neo-presidente è stato quasi del tutto divorato dai falchi del suo partito che hanno prima allontanato Flynn facendo leva sui suoi contatti con i diplomatici russi e poi hanno forzato la mano sul recupero della situazione mediorientale in sostegno agli alleati storici: il dichiarato disimpegno americano nel Medio Oriente era già evidentemente incompatibile con il rinnovato rapporto tra Washington e Gerusalemme e con l’inimicizia tra USA e Iran. Inoltre, le critiche mosse dal 2013 alla vigilia del 2017 all’indecisionismo di Obama su questo quadrante hanno rappresentato un notevole condizionamento psicologico per Trump che ha voluto mostrare la sua propensione al decisionismo; il tutto, unito allo scetticismo verso la NATO, si è tradotto nel classico unilateralismo repubblicano.
Un intervento che era nell’aria già da tempo dati i toni che Trump ha assunto dall’estromissione di Flynn in poi e fonti russe ci dicono che fosse addirittura già programmato da tempo; non resta che sperare che Lavrov abbia torto e che si crei una controparte valida e autorevole al cospetto del rinnovato unilateralismo americano che non sia la capacità militare di Putin, che nonostante i rinforzi già in volo per la Siria non riuscirebbe comunque ad avere ragione della potenza militare americana.Marcello Ciola
Analista Associato, Think Tank il Nodo di Gordio e Vice-Direttore di Mediterranean Affairs
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