È un partito trasversale quello che si sta formando nel Regno Unito. Il nemico è comune e si chiama Boris Johnson, il premier britannico conservatore che vuole chiudere la partita sulla Brexit entro il 31 ottobre, con o senza il placet dell'Unione Europea. A protestare, nelle ore immediatamente successive alla richiesta del premier, avallata dalla Regina Elisabetta, di sospendere i lavori parlamentari in un momento cruciale per il futuro del Paese, sono stati anche diversi esponenti conservatori.
"Non mi hanno convinto i motivi forniti per questa decisione che credo rischi di minare il ruolo fondamentale del Parlamento”, ha spiegato il capogruppo dei Tory alla Camera dei Lord, George Young, in una lettera aperta in cui annuncia le sue dimissioni. Un passo indietro, il suo, che segue di qualche ora quello identico compiuto dalla popolare leader dei conservatori scozzesi, Ruth Davidson. Jeremy Corbyn, capo del partito labourista, guida il fronte di opposizione, al quale potrebbero unirsi anche i liberaldemocratici, spiazzati dall’iniziativa del primo ministro Tory, e i conservatori, che al momento però, pur restando scettici sull’ipotesi di un no deal, sono convinti di poter scongiurare una hard Brexit votando una nuova legge.
Gli scenari che si apriranno a partire dal 3 settembre, data in cui i parlamentari torneranno al lavoro, fino all’inizio dello shutdown che durerà fino al 14 ottobre, sono diversi. Secondo il Guardian è probabile che entro il 9 di settembre il leader dei Labour possa calendarizzare un voto di sfiducia nei confronti di Boris Johnson. Se riuscisse a mettere all’angolo il premier, l’opposizione avrebbe 14 giorni per provare a comporre una maggioranza alternativa. Una volta raggiunto un accordo, potrebbe essere Corbyn a guidare un esecutivo di transizione che chieda all’Unione Europea di estendere i negoziati partiti dopo l’attivazione dell’articolo 50, prima di convocare nuove elezioni. Nel caso in cui non ci fossero gli spazi per formare una nuova maggioranza, invece, i parlamentari potrebbero votare una legge che obblighi il primo ministro a chiedere all’Ue l’estensione dei tempi per raggiungere un accordo. Da parte sua Boris Johnson potrebbe ignorarli o passare la palla agli elettori, scegliendo di andare alle urne con uno schema “popolo contro palazzo” che gli garantisca un’ampia legittimazione popolare.
Se Corbyn non riuscisse a presentare la mozione di sfiducia o a sconfiggere il premier in Parlamento, continuerebbero i negoziati con i 27, con l’obiettivo di arrivare ad un accordo last-minute, mentre nel Paese si aprirebbero le conferenze dei partiti. Le tappe chiave a partire dal giorno in cui il Parlamento riaprirà i battenti, saranno quella del 14 ottobre, quando la Regina illustrerà alle Camere le linee guida dell’azione del nuovo governo in vista della data cruciale che segnerà l’addio all’Ue, e quella del 17 ottobre, quando Johnson volerà a Bruxelles per ratificare l’accordo rinegoziato. Se l’Ue lo accettasse, il 21 e 22 ottobre il nuovo patto sarà sottoposto all’esame dei parlamentari che potrebbero approvarlo, consentendo un’uscita regolamentata del Regno Unito il 31 ottobre, per poi convocare nuove elezioni.
Sia nel caso in cui le trattative fallissero, sia nell’eventualità di un voto contrario del Parlamento inglese l’unica alternativa, al contrario, sarebbe quella di un recesso senza accordo, con i rapporti commerciali tra Londra e i
Paesi membri che tornerebbero ad essere regolati dal WTO. A Corbyn non resterebbe altro che chiedere un voto di sfiducia qualche giorno prima della data fatidica. Ma, a questo punto, potrebbe non bastare a cambiare l’epilogo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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