I club londinesi possono essere un buon posto d'osservazione per raccontare la Brexit, a patto di non farsi prendere dall'entusiasmo. Per esempio, il più anglofilo dei giornalisti del Corriere della Sera, Beppe Severgnini, che è di casa al liberale e progressista Reform Club, quarant'anni fa il primo ad aprire alle donne, si è lasciato sedurre dalla equazione progresso=Unione europea e ha confuso se stesso con il club e il club con l'Inghilterra. Noi, che del Reform non siamo soci, ma lo siamo del Travellers che gli sorge a fianco, abbiamo fatto un ragionamento meno ideologico e più sentimentale: viaggiare esalta le differenze e rafforza le appartenenze, spiega chi siamo grazie agli altri, e viceversa, permette di attraversare i confini proprio perché ne ammette l'esistenza. Un traveller, un viaggiatore, appunto, inglese è prima di tutto il suo Paese. Se gli togli la specificità, ne fai un guscio cosmopolita vuoto, proprio quello che gli prometteva il Remain. E proprio per questo avrebbe scelto il Leave.
Naturalmente, i club, come istituzioni, non votano, non si schierano, non rappresentano un campione statistico. Però la loro storia aiuta a farsi un'idea. Il Reform nacque nel 1836 e prende il nome dal Reform Act del 1832 che modificava il sistema elettorale e allargava il diritto di voto alla borghesia. È grande, ricco, istituzionale, sussiegoso nei suoi membri e un po' pomposo, tanto che l'architetto che lo disegnò, Sir Charles Barry, lo modellò su Palazzo Farnese. Fra le sue socie c'è Camilla Parker Bowles, la moglie del principe Carlo, fra i suoi soci può annoverare Dickens, Thackeray, Lloyd George e Conan Doyle, nomi illustri e che si prendevano molto sul serio. Il Travellers è più antico e però più giovane, perché più divertente: non se la tira insomma, e anche per questo Severgnini sta al Reform e il sottoscritto se ne sta qui. Fu fondato nel 1819 e nel 1832 si trasferì dove è oggi, al 106 di Pall Mall: sempre Sir Charles Barry ne fece il più bello dei palazzi da lui disegnati, sul modello del fiorentino e raffaellita Palazzo Pandolfini. Nacque come luogo d'incontro tra chi aveva viaggiato all'estero, i suoi amici stranieri, i diplomatici di stanza nella capitale: il corrimano di legno che dal piano terra porta alla biblioteca è un dono del principe di Talleyrand, i marmi che adornano il soffitto centrale di quest'ultima sono una riproduzione (gli originali stanno ora al British Museum) dei fregi del tempio di Apollo a Bassae, frutto di una campagna di scavi di C. Cockerell, membro fondatore del club. Da Wilfred Thesiger a Bruce Chatwin, il meglio dei Travel writers inglesi, per restare al solo Novecento, ne ha fatto parte. Ne era socio anche James Morris, cui si devono libri indimenticabili su Venezia, la Spagna. Anni fa James cambiò sesso e infatti ora si chiama e si firma Jan Morris: poiché l'accesso al club è rimasto rigorosamente maschile, ha dovuto dimettersi. Il giorno dopo il terremoto referendario, in Pall Mall c'è stata la normalità di sempre: una sfilata di auto da corsa, le riprese del nuovo film di Bridget Jones, il Gay Pride. Nel notiziario serale, la rete televisiva Itv ha dato conto di quest'ultimo dicendo che «nonostante gli omicidi di Orlando e nonostante la vittoria del Leave, dai partecipanti alla marcia è venuto un messaggio di tolleranza e di unità». Per la verità, qualche cartello gay-lesbo-trans recitava «Out and Proud», fuori, in tutti i sensi, e orgoglioso, sempre in tutti i sensi, ma l'idea che chi avesse voluto uscire dall'Unione europea, ovvero 17 milioni e passa di inglesi, fosse poco meno di un assassino eterosessuale di massa la dice lunga su come la campagna elettorale è stata vissuta, condotta e persa. Certo, esagerazioni e bugie ci sono state anche dall'altra parte, ma quel che colpisce nel caso dei sostenitori del Remain è un'idea della democrazia dove se il popolo non vota come si vorrebbe, allora non vale: va eletto un altro popolo. Ancora l'altro ieri, un gruppo di manifestanti davanti a Westminster diceva che no, non era giusto che avessero perso, bisognava rivotare da capo. Sul Guardian, lo scrittore Robert Harris ha liquidato lo strumento referendario come «hitleriano», rifacendosi a un giudizio di Clement Attle del 1945. Harris ha riportato anche l'opinione negativa in materia del pensatore ottocentesco Edmond Burke e certo se la modernità democratica e progressista contemporanea deve rifarsi a tesi concepite quando non c'era il suffragio universale e si votava per censo, il passo successivo sarà l'elogio del boia di de Maistre. Bisognerebbe insomma fare una vera analisi del voto, per capire come è andata e perché è andata così.
Soffermiamoci su alcuni aspetti: il primo è che l'economia astratta, quella delle pagine finanziarie, delle banche e della City, dei mercati e del Fondo monetario internazionale non ha nulla a che vedere con quella del popolo reale. Il secondo è che la scelta di uscire invece di rimanere non aveva tanto a che fare, come sostenevano i seguaci di quest'ultima, con l'immigrazione, le sue paure, il suo razzismo più o meno inconscio, ma con qualcosa di più tipicamente inglese, ovvero il diritto di decidere che politica fare. Non è una perdita di fiducia nella democrazia che ha prodotto la vittoria del Leave, ma il suo esatto contrario: ristabilire una democrazia parlamentare e un governo che prende le decisioni in nome del popolo sovrano che rappresenta e che di quelle decisioni al popolo sovrano risponde. Certo, è stato un terremoto, ma soprattutto un terremoto politico, non economico. Nessuno ha ritirato i soldi che aveva in banca, nessuno ha fatto incetta di cibo, nessuno ha inseguito con le mazze gli extracomunitari. Quello che è andato in pezzi è il sistema dei partiti in quanto tali, a destra come a sinistra, conservatori e laburisti. In fondo, il politico più avveduto si è rivelato il neo sindaco di Londra, Sadiq Khan. Aridea Fezzi Price, che i lettori del Giornale ben conoscono per le sue corrispondenze culturali, mi fa leggere la lettera che, in quanto italiana lì residente, ha ricevuto dal primo cittadino: «Siamo grati per l'enorme contributo che date e che non cambierà per il risultato di questo referendum. Tutti abbiamo la responsabilità di cercare di guarire le divisioni emerse e di concentrarci su ciò che ci unisce e non quello che ci divide». Non è un profeta di sventura.
La sera del referendum, al Reform Club servivano un cocktail Remain e un cocktail Leave e il più gettonato, ha raccontato Severgnini, era il primo. Al Travellers ci si è limitati a un menu che contemplava cuisses de grenouilles, escargot, cavolini di Bruxelles, patate alla ungherese, Weiner Schnitzel e i classici della cucina inglese.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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