Ecco perché la minaccia dell'Isis nei Balcani ​non va sottovalutata

I Balcani per lo Stato Islamico non sono solo un bacino a cui attingere per esportare combattenti, ma anche delle basi sicure per allargare il reclutamento in tutta Europa Sostieni il reportage

Ecco perché la minaccia dell'Isis nei Balcani ​non va sottovalutata

Spaventano le minacce dell'Isis nei Balcani. Spaventano soprattutto noi che siamo così vicini. Ma ci spaventano anche e specialmente perché siamo distratti: la maggior parte di noi si concentra sul pericolo che viene dal mare. Eppure Kosovo, Bosnia e Albania sono i primi Paesi esportatori di foreign fighter secondo il Kosovo Centre for Security Studies (KCSS). Poi l'Albania risulta essere il punto di partenza anche per alcuni jihadisti europei, che utilizzano l'Italia come luogo di transito. A fine marzo, la Procura di Brescia ha smantellato un gruppo che reclutava aspiranti jihadisti e che operava tra Italia e Albania. Due cittadini albanesi sono stati arrestati per apologia di associazione con finalità di terrorismo internazionale, e per aver diffuso un video mirato al reclutamento di combattenti, indirizzato specificamente al pubblico italiano. Quindi i Balcani per lo Stato Islamico non sono solo un bacino a cui attingere per esportare combattenti, ma anche delle basi sicure per allargare il reclutamento in tutta Europa. Ma guardare all'Isis nei Balcani può servirci a qualcosa di più che ad avere paura o a mettere in atto misure di polizia volte a contrastare il terrorismo. Può aiutarci a lavorare su una via politica di risoluzione del problema. Basta valutare i dati e gli avvenimenti da un altro punto di vista. Quindi, anziché guardare quanti foreign fighter vengono arruolati ogni milione di abitanti, concentriamoci su quanti combattenti ci sono ogni milione di musulmani. La situazione cambia radicalmente: la Bosnia scende in 11esima posizione, il Kosovo in 14esima e l'Albania in 20esima, sempre secondo il KCSS. Si aggiudicano il podio, invece, Finlandia, Irlanda e Belgio, seguiti da Danimarca, Norvegia Svezia e Austria.

La Turchia, Paese in cui quasi il 100% della popolazione è musulmana, è l'ultima della lista. Sembra dunque chiaro che è la comunità musulmana dei Paesi in cui l'Islam non è la religione più diffusa a essere più affetta dal fenomeno dei foreign fighter. È quando sono una minoranza che i musulmani sono più propensi a farsi infatuare dagli estremismi e dalle incitazioni al jihad. Le ragioni sarebbero essenzialmente due, una sociale e l'altra religiosa. John Louis Esposito, noto professore statunitense esperto di cultura islamica, spiega bene la prima nel suo libro “Tutto quello che dovresti sapere sull'Islam”: per alcuni musulmani in America e in Europa, il fondamentalismo è un modo alternativo di praticare la religione che risponde perfettamente al loro rifiuto di alcune nostre abitudini e pratiche troppo diverse rispetto a quelle del loro paese d'origine. Si tratta quindi di un processo di alienazione subito da coloro che non reggono l'impatto con una realtà tanto differente. Alcune delle nostre abitudini sono socialmente riprovevoli per il mondo musulmano, e questo sdegno può portare la persona a cercare di reagire, di cambiare la situazione, magari anche con la violenza e con il contributo all'espansione dello Stato Islamico.

La seconda causa che può portare un musulmano emigrato in un Paese non a maggioranza islamica ad arruolarsi è finire sotto una guida religiosa sbagliata. Per abitudine, negli Stati da cui provengono, ci si reca alla moschea più vicina, mentre trovarsi in una realtà nuova crea una confusione circa gli imam a cui fare riferimento e le scuole coraniche in cui mandare i propri figli. Ed ecco che molti cercano risposte nel web e trovano su YouTube e Facebook i loro imam di riferimento, finendo nelle trame dell'Isis, vittime di ammaliatori esperti. Data la natura del problema, a trovare una soluzione può aiutarci molto l'Islam moderato. Secondo il Cardinal Puljic (Arcivescovo di Sarajevo) una guida forte e chiara è il primo baluardo della lotta al terrorismo: il Gran Muftì Husein Kavazovic in Bosnia “sta lanciando forti segnali contro il fondamentalismo, contro coloro che vanno a combattere il jihad e ha proposto che a questi venga addirittura revocata la cittadinanza”. La pensa così anche Gojko Vasic, direttore della polizia in Repubblica Srpska:”Abbiamo bisogno che la polizia bosniaca di fede musulmana ci aiuti: sono loro che possono dialogare con le autorità religiose, che possono convincere la gente, ma non solo. Sono sempre loro che sono più capaci di cogliere i segnali della presenza di cellule terroristiche”.

L'Ambasciatore italiano in Bosnia, Ruggero Corrias, rispondendo alle nostre domande sulla diffusione dell'estremismo in Bosnia, afferma: “Non possiamo pretendere che i foreign fighters non esistano in Paesi come questi, in cui le frontiere sono porose e gli equilibri etnici, religiosi e politici sono fragili. Ma dobbiamo ricordare che la maggioranza dei musulmani qui sono moderati. In Bosnia su 2 milioni di persone di fede islamica, gli ultraconservatori delle comunità wahabite sono 3mila. Non si può e non si deve gettare l'ombra del sospetto su tutti. Perchè non sono solo i programmi anticriminalità, di cui noi qui siamo coordinatori, che servono a combattere il terrorismo.

E non è un caso che il Papa abbia deciso di venire qui dopo essere stato in Albania, e di non andare in un Paese dove l'estremismo islamico è ampiamente diffuso. Si sta puntando sull'Islam moderato per contrastare il terrorismo.”

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