Qualcuno, in tempi recenti, ha ipotizzato che, accanto ai conflitti regionali che travagliano un po’ tutto il mondo del dopo Guerra Fredda, sia in atto ormai un altro tipo di “competizione” fra potenze. Un conflitto in genere non “guerreggiato” secondo schemi tradizionali, ma non per questo meno duro e, soprattutto, determinante per il futuro dei, precari, equilibri mondiali. Potremmo chiamarlo la “Guerra delle Reti”. Reti di trasporto, ferroviarie, stradali... reti di gasdotti ed oleodotti... reti informatiche e telematiche... Insomma, il sistema nevralgico che innerva la nostra era, che vanifica le distanze, che rende il nostro Mondo più piccolo di quanto sia mai stato in tutta la sua storia precedente. Il tessuto dell’arazzo della cosiddetta Globalizzazione. Solo che, a differenza di quanto in troppi vollero credere e sperare subito dopo la fine della Guerra Fredda e l’implosione dell’URSS – gli anni un po’ folli e caratterizzati dal sorridente faccione di Bill Clinton – questa Globalizzazione non ha, com’è ormai evidente, portato al “migliore dei mondi possibile”, bensì ad un’epoca molto, molto più pericolosa di quella che l’ha preceduta. E le “reti”, lungi dall’affratellare i popoli, sono a loro volta strumento di geopolitica e causa di tensioni.
In questo contesto, inevitabile che, ancora una volta, il confronto globale finisse per trovare nel Caucaso uno dei suoi nodi più difficili da sbrogliare. È questo perché il Caucaso è da sempre una sorta di crocevia cruciale fra Asia ed Europa, luogo di transito di antiche vive carovaniere – la più famosa quella “della Seta” narrata da Marco Polo – e incontro/scontro di civiltà e culture; oggi, ancora più cruciale per le grandi riserve di idrocarburi che cela nel suo sottosuolo, e per essere la via privilegiata di molte pipeline che veicolano verso il Mediterraneo le ricchezze dell’Asia Centrale.
Di fatto, seguendo il tracciato delle diverse reti che oggi intersecano la regione caucasica – e che ancor più andranno innervandola nel prossimo futuro – è possibile decifrare i nuovi equilibri fra le potenze di area e il complesso gioco delle alleanze. Un rilievo particolare sta infatti assumendo l’alleanza fra Turchia, Georgia ed Azerbaigian. Alleanza economica e commerciale, certo, ma con forti riflessi politici.
I tre paesi condividono la South Caucasus Pipeline, conosciuto anche come BTE, ovvero Baku/Tbilisi/Erzurum, un gasdotto che veicola il prodotto del giacimento azero di Shah Deniz sino al porto turco di Erzurum, passando per il territorio georgiano. Una pipeline che ha una capacità potenziale di 25 miliardi di metri cubi annuali – allo stato attuale 8,8 – e che, nei progetti del governo di Baku dovrebbe nel prossimo futuro connettersi con il Trans-Caspian Gas Pipeline, in fase di progetto, che collegherà l’Azerbaigian con i giacimenti del Kazakhstan e del Turkmenistan. Con un potenziale di 60 miliardi di metri cubi di gas naturale. Parte centrale di questo progetto è rappresentato dal Tanap, Trans Anatolian Natural Gas pipeline, che porterà inizialmente 16 miliardi di metri cubi di gas – in breve previsti 23 – dall’Azerbaigian all’Europa, passando per Georgia e Turchia. Un progetto, per inciso, che interessa direttamente anche l’Italia, visti i contratti siglati, in tempi recenti, fra Roma e Baku, e che potrebbe in parte affrancarci dalla dipendenza da Russia ed Algeria per le forniture di gas.
Non solo gasdotti. Infatti è in costruzione una rete ferroviaria Baku/Tbilisi/Kars, che, a partire da una data ancora non precisata del 2016, dovrebbe connettere Azerbaigian, Georgia e Turchia. Rete strategica, se si pensa che dall’Agosto scorso è entrata in funzione la linea ferroviaria che collega la Cina con l’Azerbaigian, passando attraverso il Kazakhstan, e che dovrebbe collegarsi con la BTK. Un progetto colossale, destinato a ridurre radicalmente il costo e i tempi dei trasporti dei container Che – oggi prevalentemente via mare – portano le merci cinesi verso il Mediterraneo e quelle europee verso l’antico Impero di Mezzo.
I ritardi nella realizzazione dell’ultima fase del progetto, in cantiere fin dal 201, sono stati in buona parte dovuti alla necessità di aggirare il territorio dell’Armenia, a causa della perdurante tensione fra Yerevan e Baku per il controllo del Nagorno-Karabach, la regione contesa, oggi formalmente indipendente, ma di fatto occupata dalle forze armate armene.
Per altro l’esclusione dell’Armenia da tutte le reti trans-caucasiche – sia ferroviarie che gasdotti – sta avendo pesanti ricadute interne sul paese, che non può partecipare dello sviluppo economico della regione caucasica e sta, appunto, attraversando un pesante periodo di crisi economica. Con non pochi effetti sul piano sociale, come dimostrano le violente manifestazioni represse a Yerevan l’estate scorsa.
In effetti, la questione del Nagorno-Karabach rappresenta solo la punta dell’iceberg che divide l’Armenia da quelli che dovrebbero essere i suoi naturali partnership economici regionali. Le ragioni di questo isolamento sono ben altre. Innanzitutto l’Azerbaigian e la Georgia sono decisamente schierate, nel Grande Gioco geopolitico globale, con Washington e con l’Occidente, mentre l’Armenia è recentemente entrata a far parte dell’Unione Economica Eurasiatica, a fianco della Russia, che è sempre stata il suo grande alleato e protettore anche in occasione del conflitto con gli azeri. E questo in un momento di tensione rinnovata, a causa della crisi ucraina, non può non incidere pesantemente. Ma il problema maggiore è costituito dal fatto che Yerevan è legata a doppio filo con Teheran, anche da un trattato di cooperazione militare.
Si delinea così, nella regione, un mosaico di alleanze di non facile decifrazione. Un mosaico che vede l’Armenia Cristiana stretta alleata dell’Iran della repubblica teocratica degli ayatollah sciiti, e collegata con Mosca. Mentre, sull’altro versante, troviamo la Turchia, membro della NATO, paese a maggioranza mussulmana sunnita, sempre più vicina alla Georgia – cristiana, ma in conflitto con la Russia per la regione contesa dell’Ossezia del Sud – e con l’Azerbaigian, che pur essendo uno Stato laico, è a stragrande maggioranza abitato da mussulmani sciiti.
Una scena complessa.
E pericolosa, visto che proprio le “reti”, che costituiscono parte fondamentale di questo Grande Gioco, rendono le tensioni regionali caucasiche un rischio per gli equilibri globali.Andrea Marcigliano
Senior fellow del think tank “Il Nodo di Gordio”
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