Quella guerra del petrolio dietro il sequestro di Silvia

L'italia è ormai marginale sia in Somalia che in Libia. Ecco come la Turchia ci ha soppiantato

Quella guerra del petrolio dietro il sequestro di Silvia

Un mare di petrolio. Ma anche un oceano e una Somalia al centro dello scontro tra Turchia e Qatar da una parte ed Emirati Arabi dall'altra. Di quello scontro tutti conoscono lo scenario libico, dove gli Emirati appoggiano il generale Khalifa Haftar mentre Turchia e Qatar tengono in piedi il governo di Tripoli. Il teatro somalo non è molto diverso. Anche lì Turchia e Qatar sono pronti a tutto per impedire la penetrazione degli Emirati. E su entrambi gli scenari l'Italia, un tempo potenza di riferimento per le due ex colonie, è ormai solo una comparsa costretta a dolorosi compromessi per garantirsi una sofferta presenza. L'ultimo compromesso è nascosto tra le pieghe della trattativa per il rilascio di Silvia Romano. Una trattativa in cui abbiamo dovuto seguire le direttive dei servizi segreti turchi e affidarci al Qatar per il pagamento del riscatto. Un Qatar pronto a intrattenere rapporti istituzionali con il nostro governo e a fare affari con l'Eni, ma anche a manovrare i terroristi somali di Al Shabaab, autori del rapimento di Silvia Romano.
L'inconfessabile relazione è venuta alla luce nel maggio 2019 dopo l'esplosione di un'autobomba nel porto somalo di Bosaso gestito dagli Emirati Arabi. Dopo quell'attentato il New York Times pubblica la registrazione della telefonata in cui Kayed al-Muhanadi, un uomo d'affari qatariota vicino all'emiro Tamim Al Thani, spiega all'ambasciatore del Qatar che l'autobomba punta a mettere fuori gioco Dubai. «Buttiamo fuori gli Emirati - spiega al-Muhanadi - e farò avere i contratti a Doha». Un obiettivo molto simile, secondo Ronald Sandee, ex analista dell'antiterrorismo olandese e fondatore di Blue Water Intelligence, a quello giocato in Nigeria o Mozambico dove Doha appoggia movimenti come Boko Haram o lo Stato islamico per contrastare attività potenzialmente concorrenziali nell'esportazione di gas liquido. «Nel nostro settore - spiega al Giornale Michele Marsiglia presidente di Federpetroli - le modalità non chiare della liberazione di Silvia Romano stanno generando molta curiosità. Molti si chiedono quale sia la contropartita chiesta all'Italia. E se l'Italia dovrà versarla in Libia, come si pensava inizialmente, o se la partita si chiuderà in Somalia o, meglio, in quelle acque dell'oceano Indiano tra Somalia e Kenya considerate il nuovo eldorado energetico. Quei fondali nascondono grossi giacimenti di petrolio e stanno scatenando un interesse pari a quello di una quindicina d'anni fa per la Nigeria».
Per capire il difficile ruolo dell'Italia, ma anche dell'Eni nella partita geo-energetica che fa da sfondo al rapimento Romano, bisogna tornare al 2012. Nel luglio di quell'anno l'ufficio stampa dell'Eni annuncia «la firma di tre contratti» con il governo di Nairobi per lo sfruttamento di altrettanti giacimenti di gas e petrolio ai confini con la Somalia. Ma quelle concessioni sono finite nelle mani del Kenya solo dopo un'ambigua operazione militare di Nairobi che nel 2011 ha occupato parte dei territori meridionali di Mogadisco con la scusa di combattere Shabaab. Quel passo falso fa infuriare Mogadiscio, segna la fine delle attività dell'Eni in Somalia e contribuisce alla marginalizzazione dell'Italia. Una marginalizzazione accentuata dalla discesa in campo di Recep Tayyp Erdogan che nel 2011 visita la Somalia promettendo investimenti e aiuti alla ricostruzione. In breve i turchi rimettono in piedi gli ospedali di Mogadiscio, fanno funzionare il porto e l'aeroporto e costruiscono la più grande base militare del paese gestendo la riorganizzazione delle Forze armate somale. Tutte mosse che contribuiscono alla marginalizzazione di un'Italia assente e rinunciataria. L'harakiri dell'Eni facilita i giochi di un Erdogan in un settore energetico dove la nostra compagnia petrolifera giocava un ruolo importante sin dagli anni '50. Il definitivo passaggio di consegne arriva lo scorso 12 maggio, quando - a soli tre giorni dalla liberazione di Silvia Romano - il ministro del petrolio di Mogadiscio annuncia la prima gara per sfruttamento di sette lotti petroliferi al largo della Somalia. Una gara in cui la grande favorita è una Turchia decisa a riscuotere il primo tornaconto dopo anni di aiuti a Mogadiscio. Ma accanto alla Turchia, ricorda il presidente di Federpetroli, c'è anche «un Qatar protagonista di un grosso affare con l'Eni in Kenya nel 2019 e parte di quel triangolo imperfetto, ma strategico con Turchia ed Emirati Arabi su un bacino strategico come l'oceano Indiano». Il grosso affare a cui si riferisce Marsiglia è la cessione al Qatar del 25% di due pozzi off shore kenyoti controllati da Eni e Total. Quella compartecipazione consente al Qatar di entrare da protagonista nella grande partita in corso nell'oceano Indiano. Ma se inseriamo questi elementi nello scenario del caso Silvia Romano e al ruolo dei servizi segreti turchi aggiungiamo il riscatto pagato in quel di Doha scopriamo un ruolo italiano molto definito. Nell'ambito del «triangolo imperfetto», che vede Qatar e Turchia da una parte ed Emirati dall'altra, l'Italia sembra condannata a stare dalla parte di Doha e Ankara.

E deve farlo anche se questo significa affidare un riscatto per la liberazione di un connazionale a un Qatar sospettato di collaborare con Al Shabaab. O piegarsi a una Turchia che dopo avere preso il nostro posto in Somalia si appresta a fare lo stesso in Libia.

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